Iraq: dimenticate dalla comunità internazionale le yazide sopravvissute alle terribili violenze dello Stato islamico

11 Ottobre 2016

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Iraq_Displaced_Yezidis_fleeing_Mount_SinjarAmnesty International ha accusato la comunità internazionale di non fornire adeguato sostegno alle ragazze e alle donne yazide ridotte in schiavitù, stuprate, picchiate e sottoposte a ulteriori torture da parte del gruppo denominatosi Stato islamico (Is).

Ad agosto, ricercatori dell’organizzazione per i diritti umani hanno incontrato nel Kurdistan iracheno 18 ragazze e donne catturate dall’Is e successivamente fuggite o rilasciate a seguito di un riscatto pagato dalle loro famiglie. Alcune di loro sono arrivate sull’orlo del suicidio o piangono il suicidio delle loro sorelle o delle loro figlie a causa della brutalità dei trattamenti subiti durante la prigionia. La sofferenza delle sopravvissute è acuita dalla condizione di miseria in cui vivono, dal dolore per i familiari uccisi dall’Is e dal timore per la sorte di quelli che sono ancora sotto sequestro.

Gli orrori inimmaginabili vissuti dalle ragazze e dalle donne yazide nelle mani dell’Is gettano nuova luce sui crimini di guerra e sui crimini contro l’umanità che vengono tuttora commessi da quel gruppo. Molte ragazze e donne sono state stuprate, picchiate o sottoposte in continuazione a ulteriori forme di tortura e continuano a portare con sé il trauma di quell’esperienza orribile’ – ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice delle ricerche presso l’ufficio regionale di Amnesty International a Beirut.

‘Le sconvolgenti testimonianze che abbiamo raccolto evidenziano la necessità urgente di un maggiore sostegno internazionale che aiuti le sopravvissute a convivere col trauma fisico e psicologico di ciò che hanno subito e visto, un trauma destinato a durare a lungo’ – ha aggiunto Maalouf.

Non esiste ancora un sistema unificato per valutare i bisogni delle sopravvissute alla prigionia dell’Is. Molto dev’essere ancora fatto per assicurare che ricevano le cure e il sostegno di cui hanno urgente bisogno per poter ricostruire le loro vite.

Da quando, nell’agosto 2014, l’Is ha attaccato la regione del Sinjar, nell’Iraq nord-occidentale, la comunità yazida è stata presa sistematicamente e deliberatamente di mira. Migliaia di yazidi sono stati catturati, centinaia di ragazzi e uomini adulti sono stati massacrati e tanti altri sono stati minacciati di morte se non si fossero convertiti all’Islam. Le ragazze e le donne yazide catturate sono state divise dai loro parenti e ‘regalate’ o ‘vendute’ ad altri combattenti dell’Is in Iraq e in Siria. Spesso sono state oggetto di ripetuti scambi tra combattenti e stuprate, ripetutamente picchiate e sottoposte a ulteriori violenze, private del cibo e di altri beni essenziali e costrette a pulire, cucinare e fare altri lavori per i loro sequestratori.

Molte delle yazide incontrate da Amnesty International hanno raccontato di essere state separate dai loro figli. I bambini di età superiore a sette anni venivano indottrinati e addestrati al combattimento, mentre bambine persino di nove anni venivano ‘vendute’ come schiave del sesso. Secondo esponenti politici locali, attivisti e operatori sanitari, circa 3800 donne e bambini della comunità yazida sarebbero ancora nelle mani dell’Is. Il destino di centinaia di uomini catturati rimane ignoto e si teme che la maggior parte di loro sia morta.

L’orrore durante la prigionia dell’Is

Jamila (tutti i nomi delle persone citate sono di fantasia, per proteggere la loro incolumità), una ventenne di Sinjar rapita il 3 agosto 2014, ha raccontato ad Amnesty International di essere stata stuprata da almeno 10 uomini che la ‘compravano’ l’uno dall’altro. Nel dicembre 2015 la sua famiglia ha pagato un alto riscatto per riaverla libera.

Jamila ha raccontato che nella città di Mosul i combattenti dell’Is hanno obbligato lei e altre donne e ragazze a togliersi i vestiti e a ‘posare’ per i fotografi prima di essere ‘vendute’. Ha provato a scappare due volte ma è stata nuovamente catturata. Per punizione è stata legata mani e piedi a un letto, sottoposta a stupro di gruppo, picchiata con dei cavi elettrici e privata del cibo.

Come molte altre yazide, Jamila ha pensato di suicidarsi ma alla fine ha deciso di parlare: ‘Non voglio nascondere cosa è accaduto, in modo che le persone possano aiutare chi è ancora nelle mani di Daesh e coloro che sono sopravvissute a rifarsi una vita’.

Nour, una ragazza di 16 anni di Siba Sheikh Khidir che ha partorito una bimba durante i quasi due anni di prigionia nelle mani dell’Is, è stata trasferita almeno sei volte in località diverse di Siria e Iraq, tra cui Tal A’far, Mosul, Aleppo and Raqqa. Ha raccontato come i combattenti dell’IS abbiano trattato senza umanità gli yazidi.

‘Per loro eravamo kuffar, infedeli cui si può fare qualsiasi cosa. Durante la prigionia ci hanno umiliato: non ci davano da mangiare; picchiavano tutte, persino le bambine piccole; ci compravano e ci vendevano e ci facevano ogni cosa gli venisse in mente. Era come se non fossimo esseri umani. Io ora sono libera, ma altre si trovano ancora in questo inferno. Non abbiamo abbastanza denaro per sostenere noi stesse e riavere indietro le nostre parenti’.

Tre sorelle e una zia di Nour sono ancora prigioniere dell’Is.

Fahima, 31 anni, una madre di sette figli della regione del Sinjar, è riuscita a fuggire dalla prigionia dell’Is nel febbraio 2016 ma due delle sue figlie – Nadia di 12 anni e Nurin di soli tre – insieme a tre sorelle, i genitori e quattro nipoti sono ancora sotto sequestro. Ha raccontato ad Amnesty International come, prima del sequestro, sua figlia Nadia fosse terrorizzata: ‘Lei sapeva che Daesh catturava le bambine. Mi aveva detto tante volte che se fosse toccato a lei si sarebbe uccisa’. 

Le sopravvissute hanno ripetutamente detto ad Amnesty International che l’esperienza che hanno passato ha causato gravi fasi di depressione e di rabbia. Molte hanno ancora pensieri suicidi. Altre hanno tentato di suicidarsi durante la prigionia o dopo essere riuscire a fuggire.

Shinin, 32 anni, una madre di sei figli originaria di Tel Qasab – un villaggio del Sinjar occidentale – è stata catturata a Solakh il 3 agosto 2014 insieme a cinque dei suoi figli, il più piccolo dei quali solo di cinque anni.

C’erano uomini di Daesh di ogni tipo e nazionalità: europei, arabi e persino curdi. Mi hanno separata dal figlio maschio maggiore di 10 anni e da due figlie, Nermeen di 11 anni e Seveh di 17, insieme a suo figlio’.

Seveh ha raccontato ad Amnesty International di essere stata scambiata tra sei diversi combattenti dell’Is in Iraq e in Siria prima di essere ‘rivenduta’ alla famiglia, nel novembre 2015. Durante i 15 mesi di sequestro è stata ripetutamente picchiata e stuprata. Non è stato risparmiato dalle botte neanche il figlioletto di tre mesi. Periodicamente, li tenevano alla fame. Ha cercato tre volte di suicidarsi ma è stata scoperta e fermata dai suoi rapitori.

L’incubo che ha passato continua ad avere conseguenze fisiche e psicologiche per Seveh, che è anche sconvolta per il suicidio di sua sorella Nermeen e per la sorte degli altri parenti scomparsi. Nermeen è rimasta così traumatizzata dalla prigionia che si è data fuoco, all’età di 13 anni, all’interno di un prefabbricato del campo per profughi interni di Zakho, nel Kurdistan iracheno. Dopo tre giorni di agonia in ospedale è morta.

‘In ospedale, le ho chiesto perché l’avesse fatto e mi ha risposto che non ne poteva più. Era in pena, piangeva in ogni momento’ – ha raccontato Shirin, aggiungendo che la famiglia aveva chiesto più volte che Nermeen potesse riceve cure specialistiche all’estero.

Oltre a dover affrontare da sole il trauma, molte sopravvissute come Shirin devono rimborsare somme ingenti, spesso equivalenti a decine di migliaia di euro, prese in prestito per pagare i riscatti dei loro familiari.

Sostegno internazionale inadeguato

La maggior parte delle centinaia di ragazze e donne yazide che sono riuscite a scappare dalla prigionia dell’Is vivono in condizioni terribili, con parenti poveri sfollati dalle loro case o nei campi per profughi interni del Kurdistan iracheno. Il sostegno disponibile è del tutto inadeguato alle loro necessità.

Molte hanno bisogno di assistenza finanziaria e di aiuto psicologico. Una donna di 42 anni della regione del Sinjar, che ha trascorso nelle mani dell’Is 22 mesi insieme ai suoi quattro figli, è tuttora traumatizzata. Un combattente dell’Is particolarmente crudele ha rotto i denti a uno dei suoi figli, di sei anni, e poi si è messo a ridere. Un’altra sua figlia, di 10 anni, è stata picchiata brutalmente.

Picchiava i miei figli e poi li chiudeva in una stanza. Loro piangevano e io piangevo a mia volta, fuori dalla porta. Lo supplicavo di ucciderci e lui rispondeva che non voleva andare all’inferno per colpa nostra’.

Questa donna è anche preoccupata perché non sa come restituire la somma presa in prestito per ottenere il loro rilascio. Ha smesso di andare dal medico perché non sa come pagarlo.

Le sopravvissute dovrebbe essere messe in grado di essere autonome e di sostenere se stesse e le loro famiglie. Purtroppo non esiste un sistema unificato per valutare e rispondere alle necessità delle sopravvissute alla prigionia dell’Is e la maggior parte di loro deve fare affidamento sulle reti familiari e comunitarie per andare avanti. L’assistenza umanitaria fornita da alcuni governi, dalle organizzazioni non governative e dalle agenzie delle Nazioni Unite è insufficiente e di qualità variabile. Grazie a un programma finanziato dal governo tedesco, 1800 yazide – sopravvissute alla violenza sessuale e i loro parenti stretti – sono arrivate in Germania per ricevere cure specialistiche ma occorrerebbero molte altre iniziative come questa.

Una donna di 60 anni della regione del Sinjar, che vive attualmente nel campo per sfollati interni di Chem Meshko, ha 32 parenti ancora nelle mani dell’Is oppure scomparsi. Parlando con Amnesty International ha detto: ‘Il mondo intero sa cosa è capitato agli yazidi. Vorrei proprio sapere ora cosa intendono fare per noi…’

‘Molto di più può e deve essere fatto per curare le profonde cicatrici fisiche e psicologiche causate dai lunghi periodi di prigionia e per offrire una speranza di ricostruire vite andate a pezzi’ – ha commentato Maalouf.

‘La comunità internazionale deve tradurre in azioni concrete lo shock e l’orrore per i crimini compiuti dall’Is e la solidarietà verso le yazide sopravvissute a terribili violenze sessuali e altre brutalità. I donatori devono impegnarsi ulteriormente, attraverso l’istituzione e il finanziamento di programmi di sostegno e trattamento specialistico, in consultazione con le sopravvissute, gli attivisti e gli operatori sanitari locali’.

Le possibilità delle sopravvissute di accedere ai servizi e di muoversi liberamente sono spesso compromesse dalla burocrazia irachena: per molte di loro è complicato ottenere carte d’identità e documenti per viaggiare, andati persi quando l’Is ha attaccato la regione del Sinjar.

Sebbene il numero delle sopravvissute disposte a raccontare la loro esperienza sia aumentato grazie al grande numero di persone che sono riuscite a scappare dalla prigionia, restano diffusi lo stigma e la paura di giudizi negativi così le incognite su un futuro, possibile matrimonio.

Individuare e portare di fronte alla giustizia i responsabili

Finora, nessuno in Iraq è stato indagato o processato per i crimini commessi contro la comunità yazida. I pochi processi nei confronti di persone sospettate di aver commesso reati per conto dell’Is non hanno aiutato a stabilire la verità o a fornire giustizia e riparazione alle vittime e alle sopravvissute.

Ad esempio, il processo contro 40 combattenti dell’Is accusati di aver preso parte al massacro di circa 1700 cadetti sciiti del campo d’addestramento militare di Speicher nel giugno 2014 è stato profondamente irregolare e molti imputati sono stati condannati sulla base di ‘confessioni’ estorte con la tortura.

‘Se le autorità irachene intendono davvero chiamare l’Is a rispondere di crimini orrendi, devono subito ratificare lo Statuto di Roma e dichiarare che il Tribunale penale internazionale è giuridicamente competente a occuparsi della situazione dell’Iraq per tutti i crimini commessi durante il conflitto. Il governo di Baghdad deve inoltre promuovere una legge per la punizione dei crimini di guerra e contro l’umanità e riformare il sistema giudiziario e quello delle forze di sicurezza affinché siano rispettosi degli standard internazionali’ – ha osservato Maalouf.

‘Nel frattempo, l’Iraq dovrebbe cooperare con la comunità internazionale per assicurare che vi siano indagini e procedimenti efficaci sui crimini commessi contro la comunità yazida. Dovrebbe essere data priorità alla conservazione delle prove, in modo da riuscire a processare i responsabili ma in modo equo: ciò è essenziale per assicurare che le vittime yazide e in generale tutte le vittime di crimini di diritto internazionale in Iraq ricevano la giustizia e la riparazione che loro spetta’ – ha concluso Maalouf.