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Amnesty International ha pubblicato una nuova ricerca sugli attacchi illegali commessi ad agosto durante l’offensiva di Israele su Gaza, attacchi che dovrebbero essere indagati dal Tribunale penale internazionale.
Utilizzando fotografie dei frammenti delle munizioni, analizzando immagini satellitari e intervistando decine di testimoni, l’organizzazione per i diritti umani ha ricostruito tre attacchi: due compiuti dalle forze israeliane e uno, molto probabilmente, da gruppi armati palestinesi. Ne è derivato un rapporto, intitolato “Erano solo dei bambini: prove di crimini di guerra commessi ad agosto durante l’offensiva di Israele su Gaza”.
I due attacchi israeliani hanno ucciso complessivamente sei civili palestinesi.
Per tutta la durata dell’offensiva di agosto, le autorità israeliane hanno esaltato la precisione delle loro operazioni militari. Tuttavia, Amnesty International ha verificato che tra le vittime di questi attacchi “precisi” c’erano un bambino di quattro anni, un ragazzo che si trovava sulla tomba della madre e una studentessa di 22 anni che era a casa con la sua famiglia.
Altri sette civili palestinesi sono stati uccisi da quello che è apparso un razzo privo di guida lanciato da gruppi armati palestinesi.
“L’ultima offensiva israeliana su Gaza è durata solo tre giorni ma questo tempo è stato sufficiente per arrecare nuovi traumi e distruzioni a una popolazione assediata. I tre attacchi mortali che abbiamo esaminato devono essere indagati come crimini di guerra: tutte le vittime degli attacchi illegali e le loro famiglie meritano giustizia e riparazione”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
“Le violazioni che abbiamo documentato hanno avuto luogo nel contesto del perdurante e illegale blocco nei confronti di Gaza da parte di Israele, strumento chiave del suo regime di apartheid. I palestinesi di Gaza sono dominati, oppressi, segregati e intrappolati in un incubo iniziato 15 anni fa, nel corso del quale gli attacchi illegali punteggiano una crisi umanitaria in peggioramento. Oltre a indagare sui crimini di guerra commessi a Gaza, nelle sue indagini in corso sui Territori palestinesi occupati il Tribunale penale internazionale dovrebbe prendere in considerazione il crimine contro l’umanità di apartheid”, ha aggiunto Callamard.
Ai fini della sua ricerca, Amnesty International ha intervistato 42 persone tra sopravvissuti agli attacchi, parenti dei feriti e degli uccisi, testimoni oculari e operatori sanitari. Poiché le autorità israeliane negano ad Amnesty International l’ingresso a Gaza sin dal 2012, l’organizzazione si è affidata a un operatore sul campo che ha visitato 17 siti colpiti dagli attacchi e ha raccolto prove, tra cui fotografie dei resti delle munizioni. Gli esperti sulle armi e il Crisis Evidence Lab di Amnesty International hanno analizzato le prove raccolte sul terreno così come immagini dal satellite e altro materiale open-source, giungendo alla conclusione che c’erano sufficienti prove per pronunciarsi sulla legalità o meno di tre dei 17 attacchi documentati.
Il 30 settembre Amnesty International ha scritto alle autorità israeliane e alla Jihad islamica palestinese, fornendo una sintesi delle sue conclusioni e chiedendo commenti, senza ricevere fino a questo momento alcuna risposta.
Il 5 agosto Israele ha lanciato un’offensiva militare definita “preventiva”, ossia in risposta alla minaccia di attacchi, sulla Striscia di Gaza, avente per obiettivo la Jihad islamica palestinese e il suo braccio armato, le Brigate al-Quds.
Secondo le Nazioni Unite, a seguito dei combattimenti sono stati uccisi 49 palestinesi. Secondo Amnesty International, 33 palestinesi – tra i quali 17 civili – sono stati uccisi dalle forze israeliane. Degli altri 16 palestinesi uccisi, 14 erano civili. L’organizzazione per i diritti umani ha raccolto prove sufficienti per concludere che sette di questi sono stati uccisi da un razzo lanciato da gruppi armati palestinesi mentre non è stata in grado di stabilire le responsabilità per la morte dei restanti sette civili. Questi sono rimasti uccisi in quattro attacchi, al termine dei quali i frammenti delle munizioni sono stati immediatamente rimossi impedendo ad Amnesty International di raccogliere prove. Come riferito più avanti, la rimozione dei frammenti aveva già avuto luogo in passato in circostanze in cui razzi palestinesi avevano sbagliato bersaglio.
Duniana al-Amour, 22 anni, studentessa di Belle arti e residente con la sua famiglia in un villaggio nei pressi di Khan Younis nella parte meridionale di Gaza, è stata uccisa nel pomeriggio di venerdì 5 agosto. Alle 15.55 un proiettile esploso da un carro armato israeliano ha colpito l’abitazione uccidendo Duniana e ferendo la madre Farha e la sorella Areej. Al momento dell’esplosione il padre di Duniana, Adnan al-Amour, stava innaffiando gli olivi nel campo mentre gli altri componenti della famiglia stavano bevendo il tè all’interno dell’abitazione, come ogni venerdì.
L’abitazione degli al-Amour si trova a solo un chilometro di distanza dalla barriera che separa Gaza da Israele, a 750 metri da una torre di controllo delle Brigate al-Quds e a 360 metri da un’altra torre di controllo delle Brigate Izz al-Din al-Qassam. Venti minuti dopo l’esplosione, le forze israeliane hanno colpito la torre di controllo delle Brigate al-Quds.
Le fotografie dei resti delle munizioni hanno consentito agli esperti sulle armi di Amnesty International di identificare il proiettile che ha ucciso Duniana: si tratta di un M339 di 120 millimetri, attualmente prodotto dall’azienda israeliana IMI Systems, di proprietà della Elbit Systems. Il proiettile, di cui nessun gruppo armato palestinese è in possesso, ha “una alta probabilità di colpire il bersaglio in modo letale con pochi danni collaterali”. Le immagini dell’abitazione degli al-Amour mostrano che il proiettile ha causato un foro solo su una delle pareti.
Un’analisi della precisione del proiettile ha permesso ad Amnesty International di determinare quello che doveva essere il suo obiettivo. La maggior parte dei cannoni che esplodono proiettili da 120 millimetri ha una probabilità di errore circolare di solo quattro metri: se usati in modo appropriato, i proiettili dovrebbe colpire entro un diametro di quattro metri dall’obiettivo. È dunque improbabile che il cannone stesse mirando a una delle due torri di guardia quando ha centrato l’abitazione degli al-Amour, altrimenti avrebbe mancato l’obiettivo di centinaia di metri.
Amnesty International ha così concluso che le forze israeliane paiono aver volutamente colpito l’abitazione degli al-Amour. L’organizzazione non ha rinvenuto alcuna prova circa il coinvolgimento di membri di questa famiglia nei combattimenti.
“Stiamo lungo il confine e loro [i soldati israeliani] sanno tutto di noi e sanno che non ci occupiamo di politica, siamo solo semplici contadini. I loro droni controllano ogni nostro movimento”, ha raccontato Adnan al-Amour.
L’esercito israeliano non ha rilasciato commenti sull’attacco contro l’abitazione degli al-Amour e non ha dato alcun segnale dell’eventuale intenzione di indagare sull’uccisione di Duniana al-Amour.
Verso le 19 del 7 agosto un missile ha colpito il cimitero al-Falluja di Jabaliya, a nord di Gaza, uccidendo cinque minorenni: Nadhmi Abu Kharsh (15 anni) e i cugini Jamil Najmiddine Nejem (quattro anni), Jamil Ihab Nejem (14 anni), Hamed Haidar Nejem (16 anni) e Miuhammad Salah Nejem (16 anni). Amir Abu al-Mi’za (otto anni) è rimasto gravemente ferito a causa di una scheggia che è entrata nella zona della spina dorsale.
Tutti vivevano nell’affollatissimo campo rifugiati di Jabaliya. Secondo Haidar Nejem, padre di Hamed, i ragazzi spesso andavano a giocare al cimitero dove c’è più spazio.
Nadhmi Abu Kharsh era sulla tomba della madre al momento dell’attacco. Suo padre Fayez ha raccontato:
“Improvvisamente abbiamo sentito il rumore di un missile a poca distanza da noi. Sono corso al cimitero come quasi tutti gli abitanti del quartiere. Le persone hanno iniziato a raccogliere pezzi dei corpi, portandoli via. Nessuno riconosceva i corpi dei loro figli, prendevano parti dei corpi senza sapere se appartenessero ai loro figli”.
Inizialmente l’esercito israeliano ha attribuito la responsabilità dell’attacco alla Jihad islamica palestinese. Il 16 agosto, tuttavia, fonti anonime militari hanno riferito al quotidiano “Haaretz” che un’indagine preliminare aveva concluso che né la Jihad islamica palestinese né le Brigate al-Quds stavano lanciando razzi al momento dell’attacco. Dopo la pubblicazione dell’articolo, l’esercito israeliano non ha confermato né ha smentito.
Gli esperti sulle armi di Amnesty International hanno concluso che i pezzi di metallo fotografati sul posto coincidono con frammenti di un missile guidato israeliano. Abitanti del posto hanno dichiarato di aver sentito il rumore di un drone che volava in alto poco prima dell’attacco.
Amnesty International non è stata in grado di rinvenire alcuna prova di attività militari di gruppi armati al momento dell’attacco contro il cimitero. Le immagini satellitari di 10 giorni prima non mostravano alcun obiettivo militare nella zona e gli abitanti hanno riferito che la situazione era la stessa anche il 7 agosto. L’assenza di qualsiasi apparente obiettivo militare indica che l’attacco possa essere stato un deliberato attacco contro civili od obiettivi civili e dunque possa costituire un crimine di guerra.
Anche se, quando hanno attaccato il cimitero, le forze israeliane avessero voluto colpire combattenti palestinesi o loro equipaggiamento militare, il terribile esito richiede un’indagine urgente per chiarire se fossero state prese tutte le misure possibili per proteggere i civili.
Alle 21.02 del 6 agosto un proiettile ha colpito una strada nel campo rifugiati di Jabaliya uccidendo sette civili palestinesi: Momen al-Neirab (sei anni) e suo fratello Ahmad al-Neirab (12 anni), Hazem Salem (otto anni), Ahmad Farram (16 anni), Khalil Abu Hamada (18 anni), Muhammad Zaqqout (19 anni) e Nafeth al-Khatib (50 anni).
Muhammad al-Neirab, padre di Momen e Ahmad, ha raccontato:
“Era una serata estiva, faceva caldo e c’era il solito black-out della corrente elettrica. I bambini non potevano stare in casa, che è molto piccola e soffocante soprattutto quando manca l’elettricità. Alle 21.02 è stata colpita la strada. Ovunque c’erano feriti, sanguinanti, pieni di schegge. Il mio piccolo Momen è morto tra le mie braccia, Ahmad a solo un metro da me. L’unico sollievo è stato che i loro corpi non erano stati fatti a pezzi”.
Molte delle persone intervistate da Amnesty International hanno fatto riferimento alle dure conseguenze del blocco illegale di Israele, come la mancanza di corrente elettrica e di spazio. Gli scontri di agosto hanno costretto l’unica centrale elettrica di Gaza a fermarsi per due giorni, aggravando la crisi umanitaria causata dal blocco israeliano. Gli attacchi hanno danneggiato oltre 1700 unità abitative, rendendo sfollati interni almeno 450 palestinesi.
Secondo Amnesty International, vi sono prove sufficienti per ritenere che l’attacco al campo rifugiati di Jabaliya sia stato causato da un razzo lanciato dai gruppi armati palestinesi, apparentemente destinato a colpire il territorio israeliano. Sono emerse diverse analogie tra questo e precedenti attacchi attribuiti ai gruppi armati palestinesi. Ad esempio, i resti delle munizioni erano stati rimossi, contrariamente a quanto accade quando sul terreno restano parti di armi e munizioni israeliane che vengono conservate ed esibite.
Alcuni abitanti del campo, intervistati da Amnesty International, hanno riferito di non avere sentito rumori di droni o aerei da guerra israeliani prima dell’attacco; altri, chiedendo di rimanere anonimi, hanno detto di credere che la responsabilità dell’attacco sia stata di “un razzo locale”. Due minuti prima dell’attacco, le Brigate al-Quds avevano condiviso sui social media la diretta video di quella che veniva definita una raffica di razzi contro Israele.
Come altri casi in cui razzi palestinesi hanno causato morti e feriti tra i civili, l’attacco contro il campo rifugiati di Jabaliya dev’essere indagato come un possibile crimine di guerra. Dal 2008 i gruppi armati palestinesi hanno lanciato migliaia di razzi indiscriminati contro le città israeliane, in violazione del diritto internazionale, causando decine di morti tra i civili israeliani. I razzi privi di guida usati dai gruppi armati palestinesi di Gaza, tra cui le Brigate al-Quds, sono inerentemente imprecisi. Il loro uso in aree civili viola il diritto internazionale e può costituire crimine di guerra.
Amnesty International ha scritto al procuratore generale di Gaza esprimendo preoccupazioni per la rimozione dei resti delle munizioni dai siti degli attacchi e ha chiesto informazioni su eventuali indagini aperte sull’attacco al campo rifugiati di Jabaliya e sui quattro attacchi in cui erano morti sette civili e di cui non aveva potuto ricostruire le responsabilità. Il procuratore generale di Gaza ha dichiarato ad Amnesty International che le autorità locali stavano indagando su tutti i casi di violazioni verificatesi durante il conflitto, ma non ha specificamente menzionato quello contro il campo rifugiati di Jabaliya e non ha fornito informazioni sugli sviluppi delle indagini.
Per individuare le responsabilità delle morti e dei ferimenti nel campo rifugiati di Jabaliya, le autorità palestinesi dovranno collaborare alle indagini indipendenti, compresa quella del Tribunale penale internazionale; i testimoni oculari e i sopravvissuti dovranno poter parlare senza timore di rappresaglie.
Tutte le persone intervistate da Amnesty International – testimoni, sopravvissuti e parenti delle vittime – hanno chiesto che si faccia chiarezza sulle responsabilità.
Come ha riassunto Wissam Nejem, che ha perso quattro cugini nell’attacco israeliano al cimitero al-Falluja, “nessuno può riportarci indietro i nostri figli, ma la verità e la giustizia potrebbero portare alle famiglie almeno un po’ di pace”.