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Alla vigilia del primo anniversario delle violenze che sconvolsero le regioni meridionali del Kirghizistan, Amnesty International ha ammonito che la mancanza di giustizia per le uccisioni, gli stupri e le torture rischiano di alimentarne altre.
Dal 10 al 14 giugno 2010, gli scontri tra persone di etnia kirghiza e di etnia uzbeca nelle zone di Osh e Jalal-Abad provocarono almeno 470 morti, migliaia di feriti e centinaia di migliaia di sfollati. Secondo osservatori locali, il 74 per cento delle vittime era costituito da uzbechi e il 25 per cento da kirghizi.
A un anno di distanza, in un rapporto intitolato ‘Ancora in attesa di giustizia’, Amnesty International ha chiesto alle autorità del Kirghizistan di accertare la verità su quanto accadde un anno fa e dare giustizia alle migliaia di vittime e alle loro famiglie. ‘Altrimenti’ – ha messo in guardia Nicola Duckworth, direttrice del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International – ‘il terreno rischierà di essere fertile per seminare nuova instabilità e future violazioni dei diritti umani’.
‘Sebbene abbiano adottato provvedimenti di segno positivo, come i risarcimenti alle vittime e l’impegno di riesaminare le denunce di tortura, le autorità kirghize devono fare ancora molto rispetto alle violazioni dei diritti umani che si verificarono durante e dopo le violenze e al ripristino della fiducia di tutti i gruppi etnici del paese in un futuro nel quale conteranno allo stesso modo‘ – ha aggiunto Duckworth.
I casi di stupro e di altre forme di violenza sessuale accertati durante le violenze del giugno 2010 sono stati una ventina, ma gli osservatori locali sui diritti umani ritengono che il numero sia molto più elevato. Molte delle vittime erano donne e ragazze uzbeche, la maggior parte dei responsabili uomini kirghizi.
Nei giorni successivi alle violenze, si legge nel rapporto di Amnesty International, le forze di sicurezza kirghize usarono violenza eccessiva durante le perquisizioni e si resero responsabili di maltrattamenti e torture nei confronti dei detenuti.
I cittadini di etnia uzbeca costituirono quasi il 75 per cento delle vittime e nel 90 per cento dei casi furono loro a perdere i beni personali. Tuttavia, secondo i dati ufficiali, delle 271 persone arrestate in relazione alle violenze del giugno 2010, 230 erano di etnia uzbeca e solo 29 di etnia kirghiza.
Al termine di processi irregolari, basati su confessioni forzate mai indagate, sulla mancata audizione di testimoni della difesa e su minacce e aggressioni nei confronti degli avvocati, i tribunali hanno emesso almeno 27 condanne all’ergastolo, tutte nei confronti di imputati di etnia uzbeca.
‘Il pregiudizio etnico è alla base della pervasiva impunità presente in Kirghizistan. Migliaia di procedimenti relativi alle violenze del giugno 2010 sono fermi, mentre centinaia se non migliaia di funzionari e semplici cittadini, di etnia kirghiza quanto uzbeca, la stanno facendo franca. Occorre ripristinare lo stato di diritto, per ricostruire la fiducia tra i gruppi etnici e prevenire ulteriori bagni di sangue. Tutti i crimini, compresi quelli contro l’umanità, devono essere sottoposti a indagine e giudicati in processi regolari‘ – ha aggiunto Duckworth.
In un suo rapporto diffuso nel maggio 2011, la Commissione d’inchiesta internazionale sulle violenze del giugno 2010 ha riscontrato evidenti prove di diffusi, sistematici e coordinati reati contro cittadini di etnia uzbeca che, se convalidate in tribunale, si configurerebbero come crimini contro l’umanità. La Commissione ha inoltre affermato che le indagini e i procedimenti giudiziari locali furono carenti e dominati dal pregiudizio etnico. La tortura dei detenuti fu praticata in modo ‘quasi universale’.
‘Le autorità kighize devono attuare prontamente le raccomandazioni della Commissione d’inchiesta internazionale. Devono assicurare che gli attacchi, nel corso dei quali le persone di etnia uzbeca vennero picchiate, uccise e stuprate per diversi giorni, siano sottoposti a indagini e a processi in linea con le norme internazionali‘ – ha concluso Duckworth.
Scarica il rapporto in inglese ‘Ancora in attesa di giustizia’