Tempo di lettura stimato: 10'
250.000 persone, per lo più donne, che svolgono lavori domestici in Libano sono a rischio di sfruttamento. A denunciarlo la nostra ricerca “La loro casa è la mia prigione” basata sulle testimonianze di 32 persone tra cui persone che svolgono lavori domestici, rappresentanti diplomatici dei paesi di provenienza, datori di lavoro, responsabili di agenzie di collocamento, attivisti per i diritti delle persone migranti e organizzazioni non governative che si occupano di lavoro migrante.
“È vergognoso che, da un governo all’altro, siano stati chiusi gli occhi di fronte al catalogo di violenze cui coloro che svolgono lavori domestici vanno incontro sul posto di lavoro. Sulla base del sistema ‘kafala’, le abitazioni private si trasformano in molti casi in prigioni nelle quali i lavoratori e le lavoratrici sono trattati con agghiacciante disprezzo e crudeltà”, ha dichiarato in una nota ufficiale Heba Morayef, direttrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.
Le persone che svolgono lavori domestici nelle abitazioni libanesi provengono da paesi africani e asiatici tra i quali l’Etiopia, il Bangladesh, lo Sri Lanka, le Filippine e il Kenya.
Queste persone sono escluse dalla legislazione in materia di lavoro e sono invece soggette al sistema “kafala”, che vincola la loro residenza legale alla relazione contrattuale col datore di lavoro. Ciò significa che un lavoratore o una lavoratrice migrante non può cambiare attività senza il permesso del datore di lavoro. Questa norma consente a persone prive di scrupoli di costringere i lavoratori ad accettare condizioni equivalenti a sfruttamento.
Se un dipendente rifiuta tali condizioni e decide di abbandonare l’abitazione del datore di lavoro senza il consenso di quest’ultimo, rischia di perdere il permesso di soggiorno e di conseguenza il carcere e l’espulsione.
“Le testimonianze orribili contenute nel nostro rapporto dimostrano come il sistema ‘kafala’ garantisca ai datori di lavoro un controllo pressoché totale sulle vite delle persone migranti che svolgono lavori domestici. Queste si trovano isolate e in completa dipendenza dal loro datore di lavoro, alla mercé di sfruttamento e violenze e al contempo senza poter accedere a forme di rimedio”, ha commentato Morayef.
Le donne intervistate dai nostri ricercatori non hanno mai denunciato i loro datori di lavoro per paura di essere arrestate o subire altre rappresaglie.
Le donne hanno riferito di condizioni di lavoro equivalenti a sfruttamento: lunghi orari di lavoro, diniego del giorno di riposo, mancato pagamento dello stipendio o ampie trattenute su di esso, forti limitazioni alla libertà di muoversi e comunicare, privazione delle cure mediche, del cibo o di una forma di alloggio adeguata, violenze verbali e fisiche.
“Eva”, una cittadina delle Filippine il cui vero nome è celato per ragioni di sicurezza, ha raccontato di essere rimasta isolata per tre anni nell’abitazione della sua datrice di lavoro prima di riuscire a fuggire: “Non potevo parlare con nessuno. Se aprivo la finestra e salutavo altre filippine, la signora mi prendeva per i capelli e mi picchiava. Per tre anni mi ha bloccata in casa senza mai poter uscire”.
“Mary” (anche questo nome è di fantasia), proveniente dall’Etiopia, ha raccontato che lavorava 19 ore al giorno, dalle 5 del mattino fino a mezzanotte, sette giorni alla settimana.
Almeno sei donne hanno riferito di aver avuto pensieri suicidi o di aver tentato di togliersi la vita.
Molte hanno detto di essere state sottoposte almeno una volta a trattamenti umilianti e disumanizzanti, come essere chiamate “somare”, “puttane”, “animali”. Le offese verbali erano un fatto comune.
La nostra ricerca denuncia otto casi di lavoro forzato e traffico di esseri umani ai danni di lavoratrici domestiche che non riuscivano ad abbandonare il loro impiego ed erano costrette a lavorare per paura di cosa sarebbe accaduto in caso di dimissioni.
Alcune di loro, dopo aver subito violenze, hanno chiesto ai datori di lavoro di poter tornare all’agenzia di collocamento o nel paese di origine ottenendo un rifiuto. Altre, quando hanno chiesto di poter lasciare l’abitazione, si sono sentite chiedere dai datori di lavoro il rimborso delle somme spese per il loro mantenimento.
Sebastian, proveniente dalla Costa d’Avorio, ha raccontato di essere stata sottoposta a carichi di lavoro insostenibili, maltrattata, segregata in casa e lasciata senza stipendio per tre mesi dalla sua datrice di lavoro: “Quando ho chiesto alla signora di rimandarmi a casa, lei mi ha detto che avrei dovuto lavorare per rifonderle i 3000 dollari che avevano speso per me”.
Nei quattro casi più gravi di sfruttamento lavorativo contenuti nel rapporto, i nostri ricercatoni hanno riscontrato prove di traffico di esseri umani.
Banchi, una cittadina dell’Etiopia, è arrivata in Libano tramite un’agenzia di collocamento nel 2011. Il titolare dell’agenzia l’ha spostata da una casa all’altra e ha trattenuto il suo passaporto e il suo stipendio per mesi: “Per sei mesi ho lavorato gratis. Il titolare dell’agenzia mi considerava un regalo: una volta per la famiglia della fidanzata del figlio, un’altra volta per sua figlia, un’altra volta ancora per la famiglia del fidanzato della figlia… come vivere in prigione”.
Nessuna delle donne intervistate ha denunciato il suo datore di lavoro. Le stesse otto donne che erano state sottoposte a sfruttamento, lavoro forzato e traffico di esseri umani hanno ritenuto che il loro status giuridico precario impedisse loro di presentare un reclamo di fronte a un giudice e rendesse probabile l’arresto per una falsa accusa di furto (una situazione che le organizzazioni per i diritti umani sostengono si verifichi frequentemente) così come impossibile trovare un nuovo lavoro.
Il sistema “kafala” è incompatibile con gli obblighi internazionali del Libano e con le stesse leggi nazionali che tutelano le libertà e la dignità umana, proteggono i diritti dei lavoratori e considerano reati il lavoro forzato e il traffico di esseri umani.
Chiediamo alle autorità libanesi di porre fine al sistema “kafala” ed estendere le protezioni di legge alle persone migranti che svolgono lavori domestici.
Chiediamo inoltre al ministero del Lavoro di assumere iniziative immediate per rivedere l’attuale contratto collettivo per i lavoratori migranti in modo da rimediare alle inuguaglianze tra datore di lavoro e dipendente, istituire un meccanismo di denuncia specifico per queste persone, assicurare che il numero telefonico di emergenza per denunciare atti di violenza sia perfettamente funzionante, informare della sua esistenza le persone migranti che svolgono lavori domestici e, infine, migliorare il sistema di controlli e ispezioni sulle agenzie di collocamento.
“Il nuovo ministro del Lavoro si è impegnato pubblicamente e anche con Amnesty International a prendere misure concrete per proteggere i diritti delle persone migranti che svolgono lavori domestici. Il governo ha ora l’opportunità di rompere col passato e di considerare in via prioritaria la fine del sistema, intrinsecamente violento, del ‘kafala’”, ha dichiarato Morayef.
Alcuni nostri rappresentanti hanno incontrato il ministro del Lavoro e condiviso le conclusioni del nostro report con i ministeri del Lavoro e dell’Interno.
Il ministro del Lavoro Camille Abousleiman ha replicato positivamente rendendo noto che il suo ministero ha preparato una proposta di legge sulla protezione delle persone che svolgono lavori domestici, promettendo di attuare diverse raccomandazioni contenute nel rapporto e invitando Amnesty International a prendere parte a una “task-force” per rivedere il sistema “kafala”. Il ministro ci ha chiesto di “fornirgli una lista di violazioni dei diritti umani su cui agire immediatamente” e si è detto d’accordo sulla necessità di chiamare a rispondere del loro operato le agenzie di collocamento che violano i diritti dei lavoratori migranti.