Le autorità colombiane ignorano le donne che hanno subito violenza sessuale

20 Settembre 2011

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In un nuovo rapporto, diffuso oggi, Amnesty International ha dichiarato che le autorità della Colombia non sono riuscite a affrontare il problema della mancanza di giustizia per le donne e ragazze che hanno subito violenza sessuale durante il lungo conflitto armato del paese.

‘In Colombia, le donne e le ragazze sono spesso trattate come trofei di guerra. Vengono stuprate e sono soggette ad altri abusi sessuali da tutte le parti in conflitto, per ridurle al silenzio e punirle’ –  ha dichiarato Susan Lee, direttrice del programma Americhe di Amnesty International.

‘Da quando il presidente Santos è entrato in carica nel 2010, il governo ha preso impegni pubblici per affrontare la crisi dei diritti umani, ma si fanno ancora attendere concreti passi avanti per assicurare alla giustizia i responsabili di violazioni dei diritti umani, come la violenza sessuale contro le donne’.

Il rapporto di Amnesty International, intitolato ‘Questo è ciò che pretendiamo: giustizia! L’impunità per la violenza sessuale contro le donne nel conflitto armato in Colombia’, mostra come i diritti alla verità, alla giustizia e al risarcimento di coloro che hanno subito violenza sessuale continuino a essere negati dalle autorità.

La mancanza di statistiche ufficiali affidabili e la paura di denunciare i reati rendono molto difficile valutare la reale dimensione del problema. I dati disponibili non fanno comprendere in modo chiaro quanti casi di violenza sessuale contro le donne e le ragazze possano essere collegati alla guerra.

Nel 2010 l’Istituto nazionale di medicina legale e scienza forense ha condotto 20.142 esami su casi sospetti di violenza sessuale, rispetto ai 12.732 del 2000. Tuttavia, solo 109 degli oltre 20.000 casi sono stati classificati come riferiti alla guerra, mettendo in evidenza l’invisibilità di tali crimini.

Anche quando le donne trovano il coraggio per denunciare un caso di stupro o di violenza sessuale, le indagini vengono raramente condotte in modi efficace.

Tra gli ostacoli alla giustizia, Amnesty International elenca la carenza storica di volontà politica per combattere l’impunità, le insufficienti misure di protezione per testimoni e vittime, la scarsa formazione degli ufficiali giudiziari sulle questioni di genere e l’assenza, nella legislazione nazionale, di una definizione di stupro come crimine di diritto internazionale.

Le donne native vittime di violenza sessuale vanno incontro a ulteriori barriere, tra cui la mancanza di traduttori, la difficoltà di spostarsi dalle zone interne verso luoghi in cui possano ricevere assistenza ufficiale e, infine, la forte presenza di combattenti nelle aree in cui vivono.

‘Le autorità colombiane devono avviare un piano d’azione per porre fine alla violenza sessuale, che
comprenda misure per combattere la discriminazione contro le donne e le ragazze e per porre fine all’impunità, che assicura che i responsabili di tali crimini non sono giudicati’ – ha aggiunto Susan Lee.

Le forze di sicurezza colombiane, i gruppi paramilitari e quelli della guerriglia prendono di mira le donne e le ragazze per sfruttarle come schiave sessuali e per vendicarsi contro gli avversari.

La violenza sessuale, sottolinea Amnesty International nel suo rapporto, semina il terrore nelle comunità e costringe intere famiglie ad abbandonare le loro case, lasciando che le loro terre vengano occupate.

Donne e ragazze provenienti da comunità agricole native e di origini africane, quelle allontanate a forza dai combattimenti e quelle che vivono in condizioni di povertà sono facili obiettivi della violenza sessuale. I difensori dei diritti umani delle donne e le loro famiglie sono oggetto di minacce e intimidazioni.

Amnesty International ha incontrato molte vittime di stupro, alcune delle quali avevano cercato di presentare denuncia alle autorità.

Carolina (nome di fantasia) era una rappresentante di comunità in un paese del dipartimento di Caldas, nel nord-ovest della Colombia. Quando, nel 2007, suo figlio venne violentato da un ragazzo legato ai paramilitari, si decise a denunciare l’accaduto.

I paramilitari provarono a convincere Carolina a ritirare la denuncia. Quando rifiutò, la minacciarono e la costrinsero a guardarli mentre mutilavano alcune loro vittime. Nel maggio 2007, Carolina fu rapita e stuprata da otto paramilitari e rimase incinta. Quando il comandante dei paramilitari lo scoprì, ordinò ai suoi uomini di picchiarla. Carolina perse il bambino.

Nel giugno 2007, il programma di protezione dell’ufficio del Procuratore generale fece trasferire Carolina in un’altra città. Le minacce continuarono e la donna cambiò nuovamente residenza. Venne anche chiamata a testimoniare nella città dove il crimine ebbe luogo e dove vivevano ancora le persone che aveva denunciato.

Carolina rimase nel programma di protezione per un anno. Ora è senza protezione.

Nel settembre 2008, su pressione delle Organizzazioni non governative per i diritti delle donne, l’inchiesta fu trasferita alla Sezione per i diritti umani della Procura generale di Bogotà. Carolina non è mai stata chiamata a testimoniare. Un nuovo pubblico ministero, entrato in carica nell’agosto 2010, avrebbe recentemente iniziato a esaminare il caso.

Amnesty International chiede alle autorità colombiane di sviluppare una strategia complessiva, in consultazione con le organizzazioni locali, per assicurare protezione, indagini e perseguimento delle violenze contro le donne legate alla guerra e per garantire i risarcimenti alle vittime.

‘Le autorità colombiane devono fare azioni concrete per assicurare alla giustizia i responsabili dei crimini di violenza sessuale, molti dei quali sono anche crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Se continueranno a non farlo, dovrà intervenire la Corte penale internazionale’ – ha concluso Lee.

Ulteriori informazioni

Una delegazione di Amnesty International si trova attualmente in Colombia per incontrare donne che hanno subito la violenza sessuale, organizzazioni locali per i diritti umani e autorità di governo.

FINE DEL COMUNICATO                                    Roma, 21 settembre 2011

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