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Amnesty International ha sollecitato l’esercito libanese a porre fine agli arresti arbitrari, ai maltrattamenti e alle torture nei confronti di coloro che prendono parte alle proteste in corso da sette settimane.
L’organizzazione per i diritti umani ha parlato con otto manifestanti arrestati durante le proteste e con un avvocato che rappresenta alcune persone in carcere, ha raccolto e analizzato documentazione video e ha esaminato alcuni referti medici.
I manifestanti hanno riferito di essere stati arrestati senza mandato, picchiati, derisi e umiliati, bendati e costretti a rilasciare confessioni false. Alcuni sono stati portati in centri di detenzione sconosciuti, senza poter comunicare con avvocati e familiari e senza ricevere cure mediche. Due di loro hanno denunciato di essere stati sottoposti a finte esecuzioni.
“Le Forze armate libanesi devono immediatamente porre fine a queste azioni violente e assicurare che, anziché punire i manifestanti perché esercitano i loro diritti, la libertà di espressione e di manifestazione pacifica siano protette“, ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International.
“Nelle ultime tre settimane, abbiamo visto i soldati picchiare e trascinare via manifestanti pacifici. In una fase in cui la tensione politica e sociale è elevata, le forze armate devono comportarsi con moderazione. Le loro azioni brutali devono essere sottoposte a indagini serie ed efficaci da parte della giustizia civile e i responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia“, ha aggiunto Maalouf.
Almeno due manifestanti risultano indagati dalla procura militare. A tale proposito, Amnesty International ha ricordato alle autorità libanesi che gli imputati civili non devono essere processati dalle corti marziali.
Arresti arbitrari e brutali
Secondo il Comitato degli avvocati per la difesa dei manifestanti, la notte del 27 novembre nella provincia di Marjeyoun uomini dei servizi segreti militari hanno arrestato due ragazzi che stavano scrivendo su un muro slogan a sostegno delle proteste. Sono stati interrogati e, il giorno dopo, rilasciati.
In altri sette casi documentati da Amnesty International, i militari hanno sottoposto a pestaggi le persone arrestate, rilasciate chi dopo ore e chi dopo sei giorni.
Il 14 novembre Samer Mazeh e Ali Basal stavano camminando lungo Gemmayzeh, una strada adiacente il centro di Beirut dove c’era un raduno di manifestanti, quando sono stati fermati da cinque soldati in abiti civili. Poco dopo è sopraggiunto un veicolo militare da cui è sceso un membro dei servizi segreti militari.
“Mi ha spinto con la faccia a terra e mi ha ammanettato. Mi hanno fatto salire sul veicolo e mi hanno picchiato. Mi hanno coperto il volto con la maglietta e obbligato a stare a testa in giù. Poi hanno preso Ali, lo hanno fatto salire a bordo e obbligato a sedersi sulla mia testa. Ho detto che stavo soffocando e un soldato ha risposto che a loro non importava niente“, ha raccontato Samer.
Una volta giunti all’esterno di un centro di detenzione sconosciuto, i due arrestati sono stati fatti scendere e costretti a camminare sulle ginocchia coi fucili puntati contro la nuca: “Lì dentro mi hanno chiesto di dichiarare, al posto delle mie generalità, che ero un somaro. Poi è arrivato uno che ha chiesto se fossi stato io a insultare il presidente, e mi ha preso a schiaffi“, ha proseguito Samer.
In un altro caso risalente al 13 novembre, mentre stava prendendo parte a una manifestazione pacifica nella città di Baabda, Khaldoun Jaber è stato avvicinato da due uomini in borghese che “volevano fare due chiacchiere“. In realtà, è stato arrestato e portato in una zona lontana dalla manifestazione, dove 30 soldati dei servizi segreti militari lo hanno circondato e preso a bastonate sulla schiena. Poi lo hanno bendato e portato in un luogo sconosciuto.
“In seguito ho appreso dal mio avvocato che si trattava del ministero della Difesa. Nel corso degli interrogatori mi hanno chiesto chi ci stesse pagando, chi ci spingesse a scendere in strada, chi ci portasse da mangiare durante le proteste. Mi hanno bastonato sulla schiena, sul costato e sulle gambe. Non potevo contattare nessuno. Non mi hanno dato da mangiare e mi hanno vietato di fumare. Mi hanno solo portato dell’acqua“, ha raccontato Khaldoun.
Chris Haddad è stato arrestato il 5 novembre a Jal el Dib insieme ad altri otto manifestanti: “Tre soldati mi hanno assalito, armati di bastone. Mi hanno coperto il volto col mio maglione, trascinato via e picchiato per tutto il tragitto fino a dove avevano parcheggiato i loro blindati“, ha raccontato.
Questa è, invece, la testimonianza di Fadi Nader, arrestato nella stessa occasione: “Mi hanno picchiato violentemente e trascinato dall’altra parte della strada. Ho tentato di fuggire ma mi hanno riacciuffato. Mi hanno fatto salire a bordo del loro veicolo e mi hanno picchiato con un bastone. Sapevano benissimo chi arrestare, molti di noi che prendono parte alle manifestazioni sono volti noti di questo movimento di proteste“.
Nermine Sibai, legale del Comitato degli avvocati per la difesa dei manifestanti, ha detto ad Amnesty International che sono state presentate le prime denunce ai sensi della recente legge contro la tortura e del codice di procedura penale, violato rispetto all’assenza di immediati contatti degli arrestati con avvocati e familiari.
Altre due persone contattate da Amnesty International hanno riferito di essere state arrestate il 26 ottobre a Tripoli, all’interno del negozio dove lavoravano, poco distante da una manifestazione. Entrambi sono stati insultati e picchiati, riportando gravi ferite alla testa. Sono stati trattenuti in una prigione militare, senza poter avere contatti con l’esterno, per sei giorni prima di essere stati rilasciati.
Almeno due di queste persone sono in attesa del processo, in corte marziale, che dovrebbe iniziare nel 2020.