Tempo di lettura stimato: 10'
Un nuovo rapporto di Amnesty International denuncia l’uso di numerose tecniche di tortura da parte delle forze di sicurezza del Marocco per estorcere “confessioni” e ridurre al silenzio attivisti e dissidenti: dai pestaggi alle posizioni dolorose, dal soffocamento all’annegamento simulato, dalla violenza fisica a quella psicologica.
Il rapporto, intitolato “L’ombra dell’impunità: la tortura in Marocco e nel Sahara occidentale”, rivela una realtà più oscura rispetto all’immagine presentata dalle autorità di Rabat quando, nel 2011, risposero alle proteste di massa scoppiate in tutta la regione promettendo una serie di riforme e una nuova costituzione in cui la tortura sarebbe stata messa al bando.
“La leadership del Marocco mostra all’esterno l’immagine di un paese liberale e sensibile ai diritti umani. Ma fino a quando la minaccia della tortura continuerà a pendere sui detenuti e sui dissidenti, quell’immagine resterà solo un miraggio” – ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. “Grattando sulla superficie, ecco emergere la tortura usata per stroncare le proteste e portare prove in tribunale. Chi sfida l’ineguaglianza e si batte per ciò in cui crede può essere bersaglio della violenza e della tortura” – ha proseguito Shetty.
Il rapporto di Amnesty International descrive 173 denunce di tortura nei confronti di uomini, donne e bambini ad opera delle forze di sicurezza e di polizia relative al periodo 2010-2014. Tra le vittime figurano studenti, attivisti politici affiliati a organizzazioni di sinistra o islamiste, sostenitori dell’autodeterminazione del Sahara occidentale e persone sospettate di terrorismo o di reati comuni. Le persone rischiano la tortura dal momento dell’arresto e per tutta la durata della custodia da parte della polizia. Assai spesso, i tribunali chiudono gli occhi di fronte alle denunce ed emettono sentenze basate su “confessioni” ottenute con la tortura. Chi osa denunciare e chiedere giustizia viene addirittura incriminato per “calunnia” e “diffusione di notizie false”. L’impunità regna incontrastata, nonostante l’impegno delle autorità a rispettare i diritti umani.
La tortura durante la detenzione: obbligati a “confessare”
Il rapporto di Amnesty International documenta tutta una serie di brutali tecniche di tortura usate dalle forze di sicurezza nei confronti dei detenuti, tra cui quella del “pollo allo spiedo” in cui il prigioniero è tenuto sospeso a testa in giù, legato polsi e ginocchia a una sbarra.
Mohamed Ali Saidi, 27 anni, è uno dei numerosi sahrawi che hanno denunciato di essere stati torturati dalle forze di polizia dopo gli arresti eseguiti nel corso delle proteste scoppiate a Laayoune nel maggio 2013:
“Hanno minacciato di violentarmi con una bottiglia. Me l’hanno messa davanti agli occhi, era una bottiglia di Pom [una bevanda analcolica alla mela molto diffusa in Marocco]. Mi hanno sospeso nella posizione del pollo allo spiedo e hanno iniziato a bastonarmi sulle piante dei piedi. Sempre mentre ero in quella posizione, mi hanno immerso i piedi nell’acqua gelata, mi hanno messo uno straccio sulla bocca gettandomi nel naso prima acqua e poi urina. Alla fine mi hanno tolto tutti i vestiti a parte le mutande e mi hanno preso a cinghiate dietro le cosce”.
Abdelaziz Redaouia, un 34enne di nazionalità franco-algerina, ha denunciato di essere stato torturato nel dicembre 2013 per aver rifiutato di firmare un verbale d’interrogatorio nel quale ammetteva reati di droga:
“Rifiutavo di firmarlo e mi picchiavano nuovamente. Mi hanno messo una manetta attorno a una guancia e hanno iniziato a stringere come se volessero farmi un piercing”.
Gli agenti di polizia – ha proseguito l’uomo – gli hanno messo la testa sotto l’acqua e applicato scariche elettriche sui genitali mediante una batteria di automobile, poi lo hanno sospeso e picchiato sulle piante dei piedi.
Pestaggi di manifestanti e semplici spettatori
Il rapporto di Amnesty International descrive decine di casi di pestaggi di manifestanti e semplici spettatori in strada e all’interno dei veicoli delle forze di sicurezza, che esibiscono sfrontatamente la loro impunità dando un minaccioso segnale a tutti.
Abderrazak Jkaou, uno studente dell’università di Kénitra, ha denunciato di essere stato picchiato fino a perdere conoscenza alla vigilia di una manifestazione:
“Alcuni avevano lunghi bastoni di legno. Mi hanno picchiato dalla testa ai piedi. È arrivato un agente in borghese che si è messo una manetta intorno alla mano e mi ha colpito tra gli occhi. A quel punto sono svenuto. Altri agenti hanno preso a schiacciarmi la vescica con gli stivali fino a farmi urinare, come messaggio agli altri studenti. Loro pensavano che fossi morto”.
Alcune delle persone che hanno denunciato arresti e torture sono noti attivisti ma altri erano semplici spettatori. Khadija (il suo nome è stato cambiato per proteggerne l’identità) ha raccontato come è stata aggredita dagli agenti di polizia nel corso di una manifestazione universitaria a Fes nel 2014:
“Gli agenti antisommossa sono arrivati da dietro e mi hanno bloccata. Sono caduta, mi hanno strappato il velo e picchiato. Poi mi hanno trascinato via per le gambe, faccia in giù, verso il loro furgone. Dentro, mi aspettavano in 10. Lì ho subito i colpi più duri”.
Il sistema protegge i torturatori, non chi è torturato
Nel suo rapporto, Amnesty International mette in evidenza un preoccupante sviluppo: l’uso dei reati di “calunnia” e “diffusione di notizie false” per colpire chi osa denunciare la tortura. Negli ultimi 12 mesi sono stati avviati otto procedimenti giudiziari per questi reati.
La “diffusione di notizie false” può essere punita con un anno di carcere e una multa equivalente a circa 443 euro, la “calunnia” con cinque anni di carcere. Gli imputati possono essere costretti a pagare ingenti risarcimenti sia per la “calunnia” che per la “diffamazione”.
Nel 2014 due giovani attivisti, Wafae Charaf e Oussama Housne, sono stati condannati a due e tre anni di carcere rispettivamente per “diffusione di notizie false” e “calunnia” dopo aver denunciato di essere stati torturati, peraltro senza neanche aver identificato i presunti responsabili della tortura.
Quattro degli otto incriminati per “calunnia” o “diffusione di notizie false” hanno presentato un ricorso ai tribunali francesi, in quanto aventi doppio passaporto o coniugi di cittadini francesi. Questi ricorsi potrebbero diventare impossibili se il parlamento di Parigi approverà una proposta di legge per porre fine alla competenza dei giudizi francesi su violazioni dei diritti umani avvenute in Marocco.
“Il Marocco è a un bivio: può avviarsi lungo la strada che porta a un sistema giudiziario sufficientemente solido per contrastare le violazioni dei diritti umani o continuare a nasconderle. Il governo parla di riforme ma le autorità paiono interessate più a rafforzare le norme contro la calunnia che quelle contro la tortura. Per cambiare le cose, dobbiamo vedere nelle aule di tribunale i torturatori, non i torturati. Coloro che denunciano la tortura devono essere protetti e non incriminati” – ha commentato Shetty.
La risposta del governo
Dopo aver ricevuto da Amnesty International una prima analisi delle conclusioni del rapporto, il governo marocchino ha diffuso una lunga nota respingendo categoricamente ogni addebito. La risposta menziona le iniziative assunte per contrastare la tortura, comprese le riforme legislative, ma evita di replicare alle specifiche denunce di tortura e alla quasi totale assenza di indagini adeguate.
“Il governo dice che la tortura è un ricordo del passato. Ma nonostante alcune misure di segno positivo, anche un solo caso di tortura rappresenta un grave fallimento. E noi ne abbiamo documentati 173, tra il Marocco e il Sahara occidentale, relativi a ogni settore della società” – ha chiarito Shetty.
“La legge marocchina vieta la tortura ma, per dare un significato concreto a questo divieto, è necessario che le autorità indaghino adeguatamente sulle denunce di tortura piuttosto che respingerle a priori” – ha concluso Shetty.
Scarica il rapporto “L’ombra dell’impunità: la tortura in Marocco e nel Sahara occidentale” (English)
Ulteriori informazioni
Dopo quelli su Messico, Nigeria, Filippine e Uzbekistan, questo è il quinto rapporto realizzato nell’ambito della campagna globale di Amnesty International ‘Stop alla tortura’, lanciata nel maggio 2014. Secondo il Rapporto 2014-15 di Amnesty International, la tortura è praticata in 131 paesi.