Minacce e violenza: così il Pakistan risponde alle proteste delle famiglie degli scomparsi

11 Agosto 2022

Illustration by Ema Anis, copyright Amnesty International

Tempo di lettura stimato: 3'

Il Pakistan è stato uno dei primi stati al di fuori dell’America Latina in cui la parola “desaparecidos” è diventata di uso comune.

Le prime denunce di sparizione forzata risalgono agli anni Novanta. Le proteste delle famiglie continuano ancora oggi.

Persa la fiducia in un rimedio giudiziario, constatata l’inettitudine della Commissione nazionale d’inchiesta sulle persone scomparse, i familiari dei desaparecidos scendono in piazza reclamando verità e giustizia.

La risposta delle autorità, come raccontano le testimonianze rese note oggi da Amnesty International è vergognosa: minacce, intimidazioni, violenza. È l’ennesimo caso di soppressione del diritto di protesta pacifica, in questo caso per di più ad opera di uno stato che dovrebbe da tempo qualcosa alle persone che manifestano.

Amina Masood Janjua cerca notizie di suo marito dal 2005. Ultimamente ha iniziato a ricevere minacce telefoniche da utenze sconosciute:

“Rispondo e sento una voce che mi dice: ‘Il tuo funerale è pronto, tra poco sarai uccisa’. Quando chiedo perché dovrei essere uccisa, mi rispondono: ‘A causa della campagna che stai portando avanti”.

Gul Naaz, il cui fratello è scomparso nel 2009, si è vista irrompere un folto gruppo di agenti di polizia che, dopo lunghi e minacciosi interrogatori, sono andati via dicendo: “Scordati di protestare ancora”.

Sammi Baloch ha raccontato come le autorità ricorrano anche al tema della “onorabilità”:

“Mi hanno detto che se non fossi stato zitto, avrei fatto la fine di mio padre e che quando una persona viene rapita, il suo onore viene compromesso quindi era meglio stare a casa e non partecipare alle proteste”.

In numerosi casi, le persone che manifestavano sono state indagate per “blocco della circolazione stradale” o “mancato rispetto della legge”. Questi procedimenti ovviamente non portano a nulla ma servono a scoraggiare e far desistere dalla protesta le famiglie degli scomparsi.

Una delle ultime manifestazioni, a Karachi il 13 giugno, è stata soppressa con estrema violenza. Gli agenti di polizia hanno manganellato gli uomini e preso a schiaffi le donne. Una di loro, incinta, è stata raggiunta da un calcio sullo stomaco.