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Sahar Khodayari, la ragazza 29 enne che si era data fuoco dopo essere stata convocata in tribunale per rispondere dell’accusa di essere entrata illegalmente in uno stadio di calcio, è morta il 9 settembre in ospedale per le gravi ustioni riportate, che avevano interessato il 90 per cento del suo corpo.
“È un fatto sconvolgente, che rivela l’impatto dell’agghiacciante disprezzo delle autorità iraniane per le donne. Il ‘reato’ di Sahar è stato quello di essere una donna in un paese dove questo significa essere discriminate per legge nel modo più orribile in ogni aspetto della vita, persino nello sport“, ha dichiarato Philip Luther, direttore delle ricerche di Amnesty International sul Medio Oriente e sull’Africa del Nord.
“L’Iran ci risulta l’unico paese al mondo che impedisce alle donne di entrare negli stadi di calcio e le punisce quando vi entrano. Questo divieto discriminatorio dev’essere immediatamente annullato e la comunità internazionale – comprese la Federazione internazionale delle associazioni calcistiche in quanto organo di governo mondiale del calcio e la Confederazione calcistica asiatica – devono prendere provvedimenti urgenti per assicurare che le donne possano entrare negli impianti sportivi senza essere discriminate o rischiare di essere processate e punite“, ha aggiunto Luther.
“Sappiamo che in alcuni casi le autorità iraniane hanno autorizzato piccoli gruppi di donne ad assistere alle partite, ma si è trattato di azioni pubblicitarie più che di passi avanti verso l’abolizione del divieto. Se non fosse stato per questo drastico divieto e per il trauma dell’arresto e del successivo procedimento giudiziario, Sahar sarebbe ancora viva“, ha commentato Luther.
“Chiediamo che Sahar non sia morta in vano. La sua tragica fine deve portare a un cambiamento in Iran, in modo che ulteriori drammi come questi non debbano ripetersi in futuro“, ha concluso Luther.
Ulteriori informazioni
Nel marzo 2019 Sahar aveva tentato di entrare nello stadio “Azadi” della capitale Teheran, vestita da uomo, per assistere alla partita tra la sua squadra del cuore, l’Esteghlal, e l’Al-Ain, un club degli Emirati Arabi Uniti, valido per la Coppa d’Asia.
Era stata scoperta, arrestata e portata nella prigione di Shahr-e Rey, un ex allevamento di polli dove centinaia di donne condannate per crimini violenti languono in condizioni anti-igieniche e di sovraffollamento.
Rilasciata su cauzione dopo 48 ore, il 2 settembre era stata chiamata a comparire in un tribunale rivoluzionario di Teheran e accusata di “aver commesso un atto peccaminoso non indossando l’hijab in luogo pubblico” e di “offesa a pubblici ufficiali”. Dopo il rinvio del caso a un’udienza successiva, Sahar era uscita dal tribunale, si era cosparsa di benzina e si era data fuoco.
La vicenda era diventata molto nota in Iran e aveva spinto esponenti politici, personalità e rappresentanti del mondo del calcio a prendere posizione contro il divieto di ingresso negli stadi per le donne.
Da decenni Amnesty International denuncia le norme che obbligano a indossare il velo, che violano i diritti delle donne alla non discriminazione, alla libertà di fede e credo religioso, alla libertà di espressione, alla protezione dagli arresti e dalle detenzioni di natura arbitraria nonché dalla tortura e da altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti.