Le piattaforme digitali si sbagliano: non dobbiamo scegliere tra diritti dei lavoratori e flessibilità

17 Marzo 2021

Tempo di lettura stimato: 8'

Barbora Černušáková e Marco Perolini, ricercatori principali di Amnesty International per i diritti dei lavoratori

Una versione precedente di questo articolo è pubblicata a questo link.

Il Covid-19 ha dimostrato con grande chiarezza che la mancanza di copertura in caso di malattia non è un compromesso accettabile a fronte della scelta del proprio orario di lavoro. Nonostante questa evidenza, molte piattaforme digitali insistono nel proporre flessibilità e diritti come alternative tra cui scegliere. 

Il 16 marzo Uber ha annunciato che assumerà i suoi autisti, garantendo loro salario minimo e ferie annuali. La decisione arriva a seguito della sentenza della Corte suprema del Regno Unito che ha stabilito che gli autisti di Uber contano come lavoratori secondo la legislazione esistente, il che significa che dovrebbero avere diritto al salario minimo, alle ferie annuali e ad altri diritti lavorativi. 

Il recente impegno di Uber è un passo avanti nella giusta direzione, anche se non è sufficiente. La sentenza della Corte suprema sancisce che “tutto il tempo che gli autisti passano in servizio secondo il contratto stipulato con Uber Londra, incluso il periodo in cui sono loggati nella app di Uber disponibili ad accettare richieste di viaggio, è “tempo lavorativo”.” Questo significa che Uber dovrebbe garantire il salario minimo per tutto il tempo che gli autisti passano collegati alla app, anche mentre sono in attesa di clienti. Ma l’impegno di Uber definisce ora il periodo di lavoro come il tempo che trascorre tra la conferma di una richiesta di viaggio e la fine di quest’ultimo.

Questo significa che la lotta dei lavoratori delle piattaforme digitali per i loro diritti continua.

La sentenza della Corte suprema è una vittoria importante per i lavoratori. Altri tribunali in FranciaPaesi BassiSpagna e Italia hanno raggiunto conclusioni simili sui rider che consegnano il cibo per compagnie digitali come Glovo e Deliveroo, stabilendo che sono lavoratori subordinati e non lavoratori autonomi.

L’argomentazione sostenuta da diverse piattaforme digitali che autisti e rider sono lavoratori autonomi mina la protezione dei loro diritti.

Anche se Uber e altre piattaforme digitali sono un fenomeno del XXI secolo, la gig economy non è nuova. Esiste in varie forme dall’inizio del XX secolo, quando i musicisti jazz ricevevano pagamenti a cottimo per ogni loro spettacolo. I gig worker di oggi sono spesso migranti o persone che hanno perso il lavoro in altri settori.

Luca, un italiano di 57 anni che vive a Milano, lavora come rider con diverse piattaforme digitali. Ci ha spiegato che aveva deciso di lavorare come corriere perché era attratto dall’idea di orari e modelli di lavoro flessibili. Precedentemente impiegato come macellaio in un centro commerciale, doveva lavorare per molte ore, anche durante i fine settimana. Tuttavia, il suo nuovo lavoro non ha portato i benefici che aveva sperato.

Mi piaceva l’idea della flessibilità, ma mi sono presto reso conto che lavorare con le piattaforme digitali non era l’eldorado. Lavoro molte ore per sbarcare il lunario e me la cavo solo perché riesco a dividere l’affitto con la mia compagna. Spero di non ammalarmi, altrimenti non avrei nessuna copertura. Ho visto rider lavorare mentre avevano la febbre. Per me questo non è un lavoro da studente ma un lavoro a tempo pieno che mi tiene a galla”. 

Sarebbe miope non vedere il legame tra la precarietà dei lavoratori e il modello di business delle piattaforme digitali. Il problema per la stragrande maggioranza dei gig worker non è la flessibilità ma la precarietà.

Grazie alla mobilitazione dei lavoratori e ai loro successi nei tribunali di Regno Unito, Spagna, Italia, Francia e Paesi Bassi, i governi e le istituzioni europee stanno diventando più disposti a riconoscere la necessità di rafforzare la protezione dei lavoratori. Devono colmare le lacune legali che permettono alle aziende delle piattaforme digitali di impiegare lavoratori autonomi senza diritti lavorativi e di sicurezza sociale. Alcuni passi legislativi incoraggianti sono stati fatti in questa direzione in Spagna e nel cantone svizzero di Ginevra.

Nel lanciare una consultazione sulla gig economy il 24 febbraio 2021, la Commissione europea sottolinea il fatto che alcuni tipi di lavoro su piattaforma sono associati a condizioni di lavoro precarie, e che gli accordi contrattuali mancano di trasparenza e prevedibilità. La consultazione ha anche rilevato le sfide in materia di salute e sicurezza, e l’insufficiente accesso alla protezione sociale per i lavoratori delle piattaforme.

L’Organizzazione internazionale del lavoro ha osservato nel suo ultimo rapporto che in assenza di un quadro giuridico adeguato, la protezione dei diritti dei lavoratori nella gig economy potrebbe essere parzialmente raggiunta attraverso le sentenze dei tribunali. Ma i lavoratori che cercano la protezione dei loro diritti attraverso i tribunali, come i ricorrenti nel caso Uber nel Regno Unito, sanno bene che questa strategia richiede molto tempo e risorse. Il caso Uber è iniziato infatti nel 2016.

Allo stesso tempo Uber sta facendo pressione. All’inizio di febbraio di quest’anno, ha pubblicato un libro bianco intitolato “A Better Deal“. La domanda è: un accordo migliore per chi? Il libro bianco mira a fare pressione sulla Commissione europea e il messaggio del documento è una proposta di riforma normativa “win-win”. La società riconosce che i lavoratori hanno bisogno di “benefici e protezioni standardizzate senza compromettere lo status di lavoro indipendente”.

Tuttavia, la classificazione come lavoratori autonomi impedisce agli autisti di godere di una serie cruciale di diritti lavorativi. Inoltre, quando si tratta di organizzazione collettiva dei lavoratori, il libro bianco preferisce “canali diretti che rispondono meglio alle esigenze individuali”. Si tratta di una delega spesso usata dalle aziende tech per mascherare la loro posizione anti-sindacale, Amazon ha detto lo stesso.

Naturalmente i lavoratori hanno bisogno di flessibilità e molti hanno lottato per questo diritto in settori diversi dalla gig economy senza compromettere i loro altri diritti fondamentali del lavoro. Le donne nei paesi del Nord Europa hanno lottato con successo per accordi di lavoro flessibili, preservando i loro diritti all’indennità di malattia, alle ferie e ad altri diritti. Questi modelli possono comportare alcuni costi per i datori di lavoro. Ma i tribunali in Germania e nei Paesi Bassi hanno stabilito che i costi extra sono il prezzo che le aziende dovrebbero pagare per riconoscere che la flessibilità è una necessità sociale ed economica.

La flessibilità non deve essere ottenuta attraverso la precarietà dei lavoratori, ma richiede il rispetto del diritto internazionale e degli standard sui diritti dei lavoratori che le aziende sono tenute a rispettare.