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La decisione, presa il 7 settembre da un giudice pachistano, di rilasciare su cauzione Rimsha Masih, una cristiana di 14 anni accusata di blasfemia, è un segnale incoraggiante ma la ragazza, la sua famiglia e la sua comunità rischiano ancora di subire persecuzioni.
Rimsha e sua madre erano state arrestate il 16 agosto dopo che una folla inferocita aveva circondato la loro abitazione nella capitale Islamabad, sostenendo che la ragazza aveva dato fuoco ad alcune pagine di un testo sacro, reato punibile con la pena di morte. In seguito, un imam locale è stato arrestato per essersi inventato l’accusa. Nel frattempo, centinaia di cristiani avevano dovuto lasciare il loro quartiere temendo episodi di violenza. La famiglia di Rimsha continua a rimanere nascosta.
In passato, persone accusate di blasfemia sono state assassinate da privati, anche se non erano neanche state incriminate da un giudice. Le intimidazioni nei confronti di cristiani, sciiti, ahmadi, indù e di appartenenti ad altre minoranze religiose sono quasi quotidiane.
Casi del genere, sottolinea Amnesty International, continueranno a verificarsi fino a quando le autorità pachistane non riformeranno le leggi contro la blasfemia per scongiurare che siano usate per risolvere dispute private o consentire ai cittadini di farsi giustizia da soli.
Amnesty International ha apprezzato la vasta eco che il caso di Rimsha ha avuto in Pakistan, con espressioni di disapprovazione nei confronti della sua incriminazione giunte anche da leader religiosi che in passato si erano scagliati contro le minoranze religiose, chiedendo una rigorosa applicazione delle leggi contro la blasfemia e della pena di morte.