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Decapitazione, fucilazione, impiccagione, iniezione letale, lapidazione e sedia elettrica: con questi metodi sono state messe a morte almeno 714 persone in 18 paesi nel 2009. A questo quadro già di per sé agghiacciante, emerso dal recente rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo nello scorso anno, si aggiungono le oltre 2001 persone condannate a morte in 56 paesi, senza contare le migliaia di esecuzioni probabilmente avvenute in Cina, dove vige il segreto di stato.
Il 2009 ha anche visto un uso politico della pena capitale in paesi come Iran, Cina e Sudan, dove è stata comminata per processare e reprimere l’opposizione, influenzare l’opinione pubblica e intimidire la popolazione.
La mano violenta delle autorità non si è fermata nemmeno di fronte a imputati minorenni al momento del reato così, violando le norme internazionali, almeno sette ne sono stati messi a morte in Iran e Arabia Saudita lo scorso anno.
Nonostante questo quadro, nel 2009 nel mondo c’è stato meno lavoro per il boia: il numero di paesi che rifiutano la pena capitale è salito a 95. Inoltre, le commutazioni e le concessioni di grazia sono state più frequenti. I paesi che hanno eseguito condanne a morte costituiscono meno del 10 per cento della comunità internazionale. Due continenti, Oceania ed Europa, sono stati liberi dalla pena capitale almeno per un anno. Anche dall’Asia, il continente più refrattario alla tendenza abolizionista, sono giunti segnali positivi: in Afghanistan, Pakistan, Indonesia e Mongolia quello passato è stato un anno senza esecuzioni, in India è stato il quinto consecutivo.
Questi sono segnali importanti di un percorso che, come in passato per la schiavitù e l’apartheid, porterà all’abolizione. La pena di morte è crudele, degradante, fortemente discriminatoria, perché usata sproporzionatamente contro i poveri, le minoranze e le comunità etniche e religiose. Non ha alcun effetto deterrente e comporta il rischio di gravi errori.