Pena di morte: un fine luglio di sangue

29 Luglio 2015

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La seconda metà di luglio è stata piena di eventi negativi in tema di pena di morte. Terminato il Ramadan, sono riprese le esecuzioni in Pakistan e Arabia Saudita (il totale dall’inizio dell’anno è salito, rispettivamente, a 180 e 105). Contrariamente al solito, il mese sacro non ha minimamente fermato il boia in Iran. A metà luglio le esecuzioni dal 1° gennaio erano state quasi 700, numero ampiamente superato nella seconda parte del mese. Il 1° agosto è anche prevista l’esecuzione di un minorenne al momento del reato. In Iraq, dopo la ratifica da parte del presidente, si temono decine di esecuzioni.

Il 30 luglio, in India, è stato impiccato Yakub Abdul Razak Memon, ritenuto il finanziatore degli attentati di Mumbai del 1993 in cui morirono 257 persone. Memon era stato condannato a morte nel 2007 sulla base di una legge antiterrorismo che contiene diverse disposizioni contrarie al diritto internazionale. Le organizzazioni per i diritti umani hanno sollevato perplessità sullo svolgimento del processo.

Infine, il 27 luglio nove imputati (tra i quali Saif al-Islam Gheddafi, figlio dell’ex leader libico, e Abdallah al-Senussi, ex capo dell’intelligence) sono stati condannati a morte per crimini di guerra e altri reati commessi durante la rivolta del 2011 in Libia. Amnesty International aveva per lungo tempo chiesto che Saif al-Islam Gheddafi venisse consegnato al Tribunale penale internazionale (che aveva emesso un mandato di cattura nei suoi confronti), dove ci sarebbero state le condizioni necessarie a un processo equo, condizioni che il sistema giudiziario libico non era né è attualmente in grado di offrire. Le autorità libiche, dopo aver rifiutato di consegnarlo al Tribunale penale internazionale, hanno processato e condannato l’imputato praticamente in contumacia, detenuto in isolamento da una milizia di Zintan senza accesso a un avvocato. Saif al-Islam Gheddafi ha preso inizialmente parte al processo tramite un collegamento video di scarsa qualità, poi quando le milizie di Zintan sono state cacciate da Tripoli il collegamento non è stato più ripristinato. Il ministro della Giustizia del governo legittimato dalla comunità internazionale e che ha sede nella Libia orientale, ha dichiarato di non riconoscere l’esito del processo.