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Diciotto mesi dopo una delle più gravi violazioni dei diritti umani di massa della storia recente del Perú, ossia le proteste del dicembre 2022 – marzo 2023 in cui furono uccisi 50 manifestanti e un agente di polizia e altre 1400 persone rimasero ferite, un rapporto di Amnesty International presenta prove importanti sulle possibili responsabilità penali della presidente Dina Boluarte, a dimostrazione di quanto siano fondamentali le indagini in corso.
Il rapporto, intitolato “Chi ordinò di sparare? La catena di comando delle responsabilità per le uccisioni e i ferimenti nel corso delle proteste in Perú”, illustra le decisioni assunte dalla presidente, in quanto comandante in capo delle forze armate e della polizia, che meritano di essere esaminate nel corso delle indagini.
“La presidente, i ministri e i comandanti dell’esercito e della polizia presero decisioni che ebbero conseguenze letali. Centinaia di vittime e di sopravvissuti attendono risposte su cosa questi vertici sapevano o avrebbero dovuto sapere e sui motivi per cui non fermarono le uccisioni”, ha dichiarato Ana Piquer, direttrice di Amnesty International per le Americhe.
Sebbene abbia negato sotto giuramento di aver avuto contatti diretti coi comandanti e abbia sminuito il suo ruolo nella repressione, il rapporto di Amnesty International dimostra che, durante i tre mesi delle proteste, la presidente Boluarte incontrò diverse volte i capi delle forze armate e della polizia ed ebbe dunque diverse opportunità di condannare l’uso massiccio della forza e di ordinare di cambiare le tattiche con cui venivano affrontate le proteste. Invece, continuò per tutto quel periodo ad elogiare pubblicamente le forze di sicurezza e a denigrare come “terroristi” e “criminali” coloro che manifestavano, senza fornire alcuna prova al riguardo.
Inoltre, invece di chiedere ai suoi subordinati di rendere conto di quanto stessero facendo, la presidente Boluarte promosse di grado alti ufficiali che avevano supervisionato le operazioni delle forze armate e della polizia, che avevano causato numerosi morti.
I dirigenti della Polizia nazionale autorizzarono piani operativi che descrivevano le persone che manifestavano come “terroristi”, inviarono sul campo forze speciali di élite con armi pesanti, permisero di impiegare la forza letale e, nonostante i molti morti, rinnovarono gli stessi ordini per mesi.
La Polizia nazionale non è stata in grado di fornire ad Amnesty International il minimo dettaglio su eventuali azioni disciplinari intraprese contro gli agenti coinvolti nelle uccisioni. Quello che si sa è che 18 indagini disciplinari sono state archiviate.
La presidente Boluarte ha promosso i dirigenti della Polizia nazionale che avevano supervisionato e approvato tutti i piani operativi che hanno prodotto conseguenze mortali durante le proteste.
Amnesty International ha ottenuto tali piani operativi, scoprendo che, al di là dell’obiettivo di mantenere l’ordine pubblico mentre le persone che manifestavano bloccavano strade e altre infrastrutture, vi erano inclusi ordini formulati in termini vaghi e applicabili a largo raggio, come “rimuovere gli ostacoli umani”. Per eseguirli, gli agenti di polizia vennero dotati di fucili d’assalto e autorizzati a usarli su ordine del dirigente di piazza.
Tale approccio permissivo all’uso delle armi letali ha violato sia l’ordinamento peruviano che il diritto internazionale dei diritti umani, secondo i quali le armi da fuoco non sono appropriate per fronteggiare la folla.
Nei piani operativi, inoltre, era scritto che coloro che avevano ruoli superiori nella catena di comando erano costantemente informati e consapevoli di quanto stesse avvenendo.
Le operazioni di polizia ebbero conseguenze mortali sin dai primi giorni delle proteste. Il 12 dicembre 2022 ad Andahuaylas le forze speciali aprirono il fuoco con armi letali da un tetto verso una collina dove decine di persone stavano meramente assistendo a scontri tra manifestanti e polizia 200 metri più in basso. Due giovani vennero uccisi e diverse altre persone rimasero ferite. Amnesty International ha verificato che il dirigente responsabile per le operazioni si trovava ad appena due edifici di distanza.
Nonostante i fatti di Andahuaylas, i dirigenti di polizia confermarono le stesse tattiche per mesi, non impedendo ai loro sottoposti di usare la forza in modo eccessivo, sproporzionato e non necessario. Un mese dopo, il 9 gennaio 2023, la stessa situazione si ripeté all’aeroporto di Juliaca, dove 18 manifestanti furono uccisi e oltre 100 feriti.
Queste operazioni andarono avanti nonostante le molteplici condanne degli organismi internazionali sui diritti umani.
Settimane prima, il 15 dicembre 2022, l’esercito era intervenuto all’aeroporto di Ayacucho uccidendo dieci persone in un solo giorno. Tuttavia, i dirigenti della Polizia nazionale decisero di usare stessa tattica, coinvolgendo anche le forze armate, durante l’occupazione dell’aeroporto di Juliaca.
Amnesty International ha esaminato la catena di comando e i piani operativi relativi al dispiegamento delle forze armate ad Ayacucho. Gli ufficiali dell’esercito, dopo aver descritto i manifestanti come “gruppi ostili”, diedero il via a un’operazione che quel giorno causò dieci morti e decine di feriti. I soldati, dando seguito a “ordini a voce” dei loro superiori, aprirono il fuoco almeno 1200 volte per sette ore di seguito contro manifestanti privi di armi e persone che stavano semplicemente assistendo a quanto stava accadendo. Il tutto avveniva nonostante le telefonate del difensore civico per i diritti umani al capo delle forze armate e al ministro della Difesa per chiedere un cessate il fuoco.
Nonostante le numerose prove che le azioni dell’esercito fossero state eccessive, enormemente sproporzionate e non necessarie, la presidente Boluarte dichiarò 48 ore dopo che quella di Ayacucho era stata un’operazione legale. Nei mesi successivi, l’esercito si è limitato ad aprire azioni disciplinari interne contro otto soldati per “infrazioni minori”, sebbene fosse emerso chiaramente che i soldati avevano sparato contro persone inermi che in molti casi stavano fuggendo o si erano fermate ad assistere i feriti.
Anche il governo della presidente Boluarte non ha preso provvedimenti per chiamare a rispondere i funzionari delle forze di sicurezza. Il ministero dell’Interno, rispondendo a una richiesta di accesso agli atti presentata da Amnesty International, ha confermato che non era stata adottata alcuna misura disciplinare nei confronti dei dirigenti di polizia coinvolti nelle proteste del gennaio 2023, omettendo di fare riferimento ai 18 morti di Juliaca.
A distanza di 18 mesi, le indagini sulle violazioni dei diritti umani commesse durante le proteste vanno avanti lentamente. Nonostante le richieste di convocare per interrogatori la presidente e alcuni ministri, gli inquirenti stanno agendo superficialmente, concentrandosi su questioni di forma anziché di sostanza come la possibile responsabilità penale della presidente Boluarte in quanto comandante in capo delle forze armate e della polizia.
I procuratori hanno fatto qualche passo avanti identificando come sospetti diversi agenti di polizia e membri delle forze armate ma continuano a trascurare i funzionari-chiave nella catena di comando, compresi gli alti dirigenti della Polizia nazionale, il cui comportamento è descritto nel rapporto di Amnesty International.
“Il Perú non può lasciare impunite queste gravi violazioni dei diritti umani. Molte delle vittime provenivano dalle comunità native o contadine, le cui richieste sono storicamente ignorate. I responsabili della sofferenza di centinaia di persone che hanno perso i loro cari o sono rimaste gravemente ferite devono andare incontro alla giustizia, a prescindere da quanto sia alto il loro grado”, ha commentato Marina Navarro, direttrice generale di Amnesty International Perú.