© EFE/Aldair Mejía
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Durante le proteste di massa, iniziate lo scorso dicembre, l’esercito e le forze di polizia del Perú hanno usato illegalmente e in modo indiscriminato armi letali e altre armi potenzialmente letali nei confronti della popolazione, soprattutto contro i nativi e i contadini.
È quanto ha dichiarato oggi Amnesty International, presentando le conclusioni iniziali della ricerca svolta in Perú dal 29 gennaio all’11 febbraio e che ha interessato le città di Ayacucho, Andahuaylas, Chincheros e la capitale Lima.
L’organizzazione per i diritti umani ha ricevuto informazioni su 46 casi di possibili violazioni dei diritti umani così come su gravi carenze nelle indagini relative e ha documentato 12 morti dovute all’impiego di armi da fuoco.
“In un periodo tragico di violenza di stato, con 48 morti durante la repressione delle proteste, 11 morti durante i blocchi stradali, un agente di polizia ucciso e centinaia di feriti, le autorità peruviane hanno permesso l’uso eccessivo e letale della forza come unica risposta a oltre due mesi di proteste da parte di migliaia di comunità che pretendono dignità e reclamano un sistema politico che garantisca i loro diritti umani”, ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttrice per le Americhe di Amnesty International.
In una situazione di grande incertezza politica, la prima espressione di rivolta sociale è emersa da alcune delle regioni più marginalizzate del Perú, come Apurímac, Ayacucho e Puno: qui la popolazione in maggioranza nativa è storicamente discriminata, anche nell’accesso alla partecipazione politica, e lotta quotidianamente per diritti fondamentali quali salute, alloggio e istruzione. Le proteste si sono presto diffuse a Lima e in altre zone del paese.
Amnesty International ha svolto un’analisi partendo dai dati dell’ufficio peruviano del Difensore civico e ha adottato come parametri la concentrazione delle proteste e il numero dei morti a causa della repressione. Ha così verificato che le possibili morti arbitrarie dovute alla repressione dello stato sono sproporzionatamente presenti in regioni con un’ampia popolazione nativa, nonostante il livello della violenza di stato durante le manifestazioni sia stato praticamente lo stesso di altre zone del paese, come Lima.
In altre parole, mentre le regioni dove i nativi sono la maggioranza rappresentano solo il 13 per cento della popolazione totale, l’80 per certo delle morti registrate dallo scoppio della crisi sono state registrate lì. Ciò lascia intendere che le autorità abbiano agito sulla base di un chiaro pregiudizio razziale, prendendo di mira popolazioni storicamente discriminate.
A Juliaca, nella regione di Puno, dove vive un’elevata percentuale di nativi, il 9 gennaio la repressione delle forze di polizia ha causato 17 morti. Lo stesso ufficio della Procura generale ha dichiarato che uno dei più tragici eventi dell’intero paese è stato causato dai proiettili. All’inizio del mese di febbraio il governo aveva decretato lo stato d’emergenza in sette regioni: Puno è l’unica a essere rimasta sotto controllo militare.
Durante le sue ricerche Amnesty International ha intervistato vari funzionari di stato – delle forze di sicurezza, della magistratura e dell’ufficio del Difensore civico – così come uomini d’affari, giornalisti, esponenti di organizzazioni della società civile, avvocati, testimoni oculari e familiari delle vittime. Inoltre, il Crisis Evidence Lab dell’organizzazione ha analizzato 36 materiali fotografici e video, almeno 11 dei quali mostrano l’uso eccessivo e a volte indiscriminato della forza letale e della forza potenzialmente letale da parte delle autorità.
“Non è affatto una coincidenza che decine di persone abbiano detto ad Amnesty International di essersi sentite trattate dalle autorità come animali e non come esseri umani. Il razzismo sistemico di cui sono intrise la società e le autorità peruviane da decenni è stato l’acceleratore della violenza usata per punire comunità che avevano alzato la voce”, ha commentato Guevara-Rosas.
Nonostante gli standard del diritto internazionale proibiscano l’uso di armi da fuoco con munizioni letali per controllare i raduni, le informazioni raccolte da Amnesty International lasciano intendere che in più casi le forze di polizia e l’esercito vi abbiano fatto ricorso come primo strumento per disperdere le proteste, anche quando non c’erano rischi per la vita di altre persone.
Le proteste erano per lo più pacifiche ma in alcuni casi qualche manifestante ha commesso atti mirati di violenza, ad esempio lanciando pietre con fionde artigianali e fuochi d’artificio. Tuttavia, le prove raccolte indicano che le forze di polizia e l’esercito hanno sparato sia indiscriminatamente che verso obiettivi specifici, uccidendo o ferendo manifestanti, persone che stavano assistendo alle proteste e anche i soccorritori.
Nelle 12 uccisioni finora documentate da Amnesty International, è emerso che tutte le vittime erano state colpite al petto, al tronco o alla testa: possibile indicazione che, in alcuni casi, l’uso della forza letale sia stato intenzionale.
Jhonathan Erik Enciso Arias, studente di 18 anni, pallavolista e figlio di genitori di lingua quechua, è morto il 12 dicembre colpito da un proiettile mentre con i suoi amici era sulla collina di Huayhuaca, che domina il centro cittadino di Andahuaylas. Decine di persone si erano radunate in quel luogo per osservare e filmare le proteste dopo che la polizia aveva interrotto coi lacrimogeni i funerali di due giovani, morti il giorno prima nei pressi dell’aeroporto della città.
Dalle immagini e dalle testimonianze oculari è emerso che diversi agenti di polizia hanno aperto il fuoco dal tetto di un edificio situato di fronte alla collina. Rappresentanti dello stato hanno confermato ad Amnesty International la presenza di agenti su quel tetto. Le immagini verificate dall’organizzazione mostrano che il ragazzo non stava compiendo atti di violenza contro la polizia quando è stato ucciso. Un suo coetaneo, Wilfredo Lizarme, è morto in una circostanza simile. Entrambi i casi potrebbero essere qualificati come esecuzioni extragiudiziali.
Da quanto si apprende da diverse testimonianze e da immagini ottenute dal IDL-Reporteros, Leonardo Hancco Chacca, un operatore di mezzi pesanti di 32 anni, è morto il 15 dicembre nei pressi dell’aeroporto di Ayacucho, dove i soldati hanno aperto il fuoco contro una manifestazione. I testimoni oculari hanno dichiarato che le forze armate hanno aperto il fuoco per almeno sette ore intorno all’aeroporto e anche al suo interno, sparando anche in direzione di coloro che stavano aiutando i feriti. Quel giorno ci sono stati nove morti.
Dall’inizio della crisi, secondo dati del ministero della Salute, durante le proteste sono stati feriti oltre 1200 manifestanti e 580 agenti delle forze di polizia.
Oltre alle ferite da proiettile, dall’analisi delle immagini Amnesty International ha identificato numerosi ferimenti da pallini da caccia, munizioni imprecise che non dovrebbero mai essere impiegate per controllare le manifestazioni.
Il 15 dicembre ad Ayacucho oltre 60 persone sono state ferite in questo modo, tra cui un giovane che ha raccontato di essere stato colpito a un braccio, mentre stava soccorrendo un altro ferito, da soldati che miravano direttamente ai manifestanti.
Nella capitale Lima le prove raccolte indicano che sono state usate diffusamente munizioni potenzialmente letali come i pallini da caccia e i gas lacrimogeni. Questi ultimi possono causare effetti mortali quando sono utilizzati in maniera impropria o quando sono esplosi contro le persone anziché in aria. Una persona è rimasta uccisa, colpita alla testa da un candelotto lacrimogeno, e altre decine sono state ferite in questo modo.
A Juliaca, il 7 gennaio, il fotogiornalista Aldair Mejía è stato ferito alla gamba destra da pallini da caccia mentre stava documentando le proteste e la loro repressione da parte delle forze di polizia.
Sulla base delle conversazioni con le vittime e di informazioni ufficiali, Amnesty International è giunta alla conclusione che, sebbene l’ufficio della Procura abbia intrapreso alcune importanti azioni, a quasi due mesi di distanza dagli eventi il completamento dei rapporti degli esperti e la raccolta delle testimonianze sono lontani dalla conclusione. In alcuni casi le prove non sono state correttamente conservate, pregiudicando la possibilità di compiere indagini realmente imparziali e complete.
Amnesty International ha identificato casi in cui le indagini preliminari non hanno accuratamente seguito lo svolgimento dei fatti. Beckham Romario Quispe Rojas, 18 anni, calciatore e figlio di contadini di lingua quechua, è morto durante una protesta ad Huancabamba, Andahuaylas, su una pista di atterraggio dismessa. L’autopsia, effettuata a distanza di un mese, non ha chiarito che tipo di proiettile abbia causato la sua morte.
“L’ufficio della Procura deve urgentemente trovare il tempo e le risorse necessarie per indagare su gravi violazioni dei diritti umani e su possibili crimini di diritto internazionale. Ritardare o venir meno a questo lavoro contribuisce al clima d’impunità che non fa che incoraggiare azioni criminali del genere”, ha sottolineato Marina Navarro, direttrice di Amnesty International Perú.
Le autorità peruviane, dai più alti livelli, hanno imposto un discorso stigmatizzante nei confronti dei dimostranti, affermando senza alcuna prova che fossero legati al “terrorismo” e a gruppi criminali, con l’obiettivo di delegittimare le loro rivendicazioni e giustificare le violazioni dei loro diritti umani.
Le autorità hanno anche continuamente attaccato la stampa indipendente e quella internazionale. Amnesty International ha documentato diversi casi di violazione dell’integrità dei giornalisti mentre stavano esercitando il loro diritto alla libertà d’espressione.
L’organizzazione per i diritti umani ha intervistato oltre 20 persone ferite, nel corso delle proteste, da candelotti di gas lacrimogeno, proiettili o pallini da caccia che non hanno denunciato quanto accaduto per il timore di finire sotto inchiesta. Alcune di loro hanno ricevuto telefonate minatorie o sono state pedinate dalle forze di polizia.
“Quando la narrazione dello stato vuole criminalizzare chi manifesta è la società nel suo complesso a perdere. In quel modo, le tattiche dell’esercito e della polizia contro la popolazione vengono giustificate, la libertà d’espressione viene limitata e coloro che hanno perso i loro cari vengono nuovamente vittimizzati”, ha sottolineato Navarro.
Il 21 gennaio le forze di polizia hanno arrestato decine di persone all’Università nazionale Mayor de San Marco di Lima, in assenza di qualsiasi valida giustificazione. Durante l’operazione, durata diverse ore e che ha visto coinvolti oltre 500 agenti, sono state aggredite e arrestate 192 persone – giornalisti, studenti, difensori dei diritti umani, rappresentanti di delegazioni arrivate nella capitale da altre regioni. Dal tipo di operazione, dalle denunce di violenze fisiche e psicologiche così come dalle immagini verificate da Amnesty International, il tutto potrebbe qualificarsi come trattamento crudele, inumano e degradante.
Una delle persone arrestate ha raccontato che gli agenti della Squadra antiterrorismo hanno minacciato che, se avessero continuato a protestare, i loro volti sarebbero comparsi tra le foto segnaletiche dei ricercati per terrorismo.
Nel corso della stessa operazione, oltre alle violenze fin dall’inizio dell’intervento, agli arresti anche di semplici spettatori, all’uso non necessario delle manette e all’impossibilità di contattare le persone arrestate, Amnesty International ha ricevuto denunce rispetto al “piazzamento” di false prove presumibilmente a scopo d’incriminazione. Almeno un arresto non è stato registrato nei verbali dell’operazione.
Il sistema sanitario peruviano è uno dei meno dotati di risorse finanziarie di tutta l’America Latina e agli operatori del settore sono negate condizioni eque e umane di lavoro. Molte persone hanno dichiarato ad Amnesty International che la schiacciante povertà, la mancanza di servizi e la disuguaglianza hanno agito da detonatori delle proteste.
Robert Pablo Medina Llanterhuay, studente di 16 anni e figlio di un contadino, è stato ucciso il 12 dicembre a Chincheros dopo essere stato visto camminare tra un gruppo di dimostranti con in mano una piccola bandiera del Perú. È stato colpito mortalmente al petto mentre le forze di polizia lanciavano gas lacrimogeni da distanza ravvicinata. L’ospedale più vicino in grado di eseguire un’autopsia era a diverse ore di strada e la famiglia ha dovuto seppellire il ragazzo senza che venisse effettuato l’esame autoptico.
Junín, un ragazzo quindicenne della città di Pichanaqui, è stato gravemente ferito a colpi d’arma da fuoco il 16 dicembre mentre tornava a casa dal lavoro. Dopo aver cercato invano i primi soccorsi in due ospedali della zona, è stato operato quattro giorni dopo in un ospedale di Lima. Secondo le organizzazioni peruviane, sono centinaia le persone trasportate nella capitale per lo stesso motivo ma anche qui, in molti casi, hanno subito discriminazioni e le conseguenze dell’assenza di risorse per la sanità pubblica.
Il 15 febbraio Amnesty International ha incontrato la presidente Dina Boluarte per presentare i primi risultati della ricerca svolta e raccomandare al governo, alle agenzie statali e alla comunità internazionale una serie di azioni da attuare immediatamente e con un approccio antirazzista:
“La grave crisi dei diritti umani in corso in Perú è alimentata da stigmatizzazione, criminalizzazione e razzismo contro i popoli nativi e le comunità contadine che oggi scendono in strada esercitando i loro diritti alla libertà di espressione e di manifestazione e, per tutta risposta, ricevono solo violenza. I massicci attacchi contro la popolazione chiamano in causa le responsabilità penali individuali delle autorità, anche ai più alti livelli, riguardo alle loro azioni e alle loro omissioni”, ha sottolineato Guevara-Rosas.
“Torniamo a chiedere alla presidente Dina Boularte e alle altre autorità peruviane di porre fine alla repressione, ascoltare le legittime rivendicazioni di coloro che protestano e assicurare che lo stato tenga fede all’obbligo di indagare su tutte le violazioni dei diritti umani commesse dalle sue forze di sicurezza e di portare di fronte alla giustizia i responsabili”, ha concluso Guevara-Rosas.