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Tra il 1980 e il 2000 il Perú ha vissuto un conflitto armato interno che ha causato un numero elevatissimo di violazioni dei diritti umani.
All’inizio degli anni ’80 si svilupparono due formazioni di guerriglia: Sendero Luminoso, di ispirazione maoista, e il Movimento rivoluzionario Túpac Amaru. Si sarebbero rese responsabili, in particolare la prima, di una campagna di uccisioni, sabotaggi e attacchi militari tali da seminare il terrore in gran parte del paese. A questa minaccia, lo stato peruviano rispose applicando una ‘Dottrina di sicurezza nazionale’, che prevedeva una sistematica strategia del terrore nei confronti della popolazione civile.
La storia di quei 20 anni è riassunta nel rapporto redatto nel 2003 da un organismo indipendente, la Commissione per la verità e la riconciliazione (Cvr). L’analisi della violenza nel paese andino stima in più di 69.000 le vittime (tra morti e desaparecidos) della violenza politica e della repressione statale e mette in luce il fatto che tre quarti di queste erano contadini e indios.
Il documento della Cvr punta il dito principalmente contro la guerriglia maoista, cui attribuisce la responsabilità di oltre la metà delle vittime. La politica della guerriglia consisteva nell’assassinare autorità o semplici cittadini che non volevano militare dalla sua parte o che erano sospettati di collaborare con le forze armate. Frequenti furono anche le torture, le sevizie e gli stupri. Per punire e intimidire la popolazione civile che tentava di controllare, Sendero Luminoso compì anche massacri indiscriminati di civili.
Pesanti furono anche le responsabilità dei governi democraticamente eletti (Belaúnde Terry, 1980-1985 e Alan García, 1985-1990), nelle violazioni dei diritti umani.
Tra il 1983 e il 1984, nel tentativo di sconfiggere militarmente Sendero Luminoso, le forze armate organizzarono vaste incursioni nelle zone occupate dalla guerriglia, in particolare in quelle rurali. In quel periodo, furono distrutte intere comunità di contadini, in una serie di massacri sistematici e indiscriminati di civili, senza distinzione di età, sesso e condizione. Solo in quel biennio si registrarono quasi 20.000 vittime.
Nel periodo che va dal 1985-1990 la repressione si estese anche nelle città. Si formarono gruppi paramilitari stabili, che agivano seguendo l’esempio di quelli che avevano operato durante la dittatura militare in Argentina.
Particolarmente gravi furono gli episodi del giugno 1986: le forze governative uccisero centinaia di persone nelle carceri di Frontón e di Lurichango. Non si è mai potuto stabilire il numero dei reclusi assassinati, che furono poi interrati in fosse segrete anziché essere restituiti alle famiglie, né vennero accertate le responsabilità individuali di questi massacri. Nel 1996, la Commissione interamericana dei diritti umani riconobbe la responsabilità dello stato peruviano.
Sotto il governo di Alberto Fujimori (1990-2000), si entrò in una nuova fase di violazioni dei diritti umani. Dopo i primi due anni di governo costituzionale, Fujimori nel 1992 attuò un golpe incruento esautorando le camere e la Corte suprema. Parallelamente, avviò una lotta senza tregua contro Sendero Luminoso. Nel corso dell’anno, l’esercito catturò Abimael Guzmán, fondatore e leader del gruppo guerrigliero. Grazie all’immagine di leader determinato contro il terrorismo, Fujimori venne rieletto con la maggioranza assoluta nel 1993 e nel 1996. All’indomani delle ultime elezioni, il suo governo concesse l’amnistia ai poliziotti e ai militari impegnati nella guerra al terrorismo, senza tener conto del fatto che essi erano responsabili di violazioni dei diritti umani.
Fu in quegli anni che venne costituito uno squadrone della morte conosciuto come ‘Gruppo Colina’, sotto il controllo dell’ex capo dei servizi segreti Vladimiro Montesinos, attualmente sotto processo con decine di imputazioni. La nuova tattica fu quella dell’assassinio mirato eseguito da gruppi speciali (come nel caso dei massacri di Barrios Altos e La Cantuta), insieme a una politica di terrore nei confronti della popolazione rurale, mediante il rafforzamento dei ‘Comitati di difesa’, gruppi composti da contadini, organizzati e tutelati dall’esercito, che operavano nelle zone di campagna.
Nel 2001 Fujimori lasciò il potere e abbandonò il paese, a causa dei brogli denunciati dall’opposizione e della scoperta di gravi casi di corruzione.
Per alcune delle violazioni commesse sotto il suo governo, il 7 aprile 2009 Fujimori (nel frattempo estradato dal Cile in Perú), è stato riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità e condannato a 25 anni di carcere da una sezione speciale della Corte suprema. Per la prima volta nell’America del Sud, un ex capo di stato è stato giudicato e condannato per gravi violazioni dei diritti umani da un organo di giustizia del proprio paese. L’ex presidente ha annunciato ricorso.
Secondo i dati più recenti in possesso di Amnesty International, la situazione dei diritti umani in Perú preoccupa in modo particolare per quanto riguarda l’impunità per gli autori delle passate violazioni, compresi i numerosissimi stupri e le violenze (di cui sono state vittime soprattutto le donne appartenenti alle minoranze etniche), le difficili condizioni carcerarie, gli attacchi nei confronti dei difensori dei diritti umani e lo scarso accesso ai servizi sanitari relativi alla maternità nelle zone rurali.
Il Perú è, infatti, uno dei paesi dell’America Latina ad avere il più alto numero di decessi legati alla gravidanza e alla maternità.
Nella maggioranza dei casi le morti avvengono nelle zone rurali e povere del paese dove l’assistenza sanitaria è scarsa o non attenta alle consuetudini culturali millenarie. Oltre alla discriminazione, la causa principale di questa situazione risiede nella povertà: spesso le donne non possono permettersi il costo delle cure mediche o del viaggio necessario per raggiungere un presidio sanitario.
Grosse difficoltà sono determinate anche dalla scarsa divulgazione di informazioni circa l’utilizzo di metodi anticoncezionali che eviterebbero il susseguirsi di gravidanze che finiscono per mettere a rischio la vita di madre e bambino.
Gli aborti non effettuati in condizioni di sicurezza e nelle strutture sanitarie abilitate, sono a loro volta causa di decessi o lesioni permanenti. In Perú, l’aborto è legale solo in caso di rischio per la vita della madre. Le donne appartenenti alle classi più povere, e quindi maggiormente esposte a gravidanze indesiderate (anche perché più spesso vittime di stupro), sono costrette a ricorrere ad aborti clandestini che mettono a rischio la loro salute se non la loro stessa vita.
Rispetto alla situazione dei diritti delle donne, Amnesty International chiede:
risorse economiche adeguate affinché tutte le donne, senza alcuna discriminazione, possano beneficiare delle cure mediche necessarie a garantire maternità consapevoli e sicure;
la rimozione degli ostacoli economici, culturali e fisici che impediscono alle donne l’accesso ai presidi sanitari;
un maggiore coinvolgimento delle donne nelle decisioni relative alla loro salute;
informazioni accessibili e chiare circa i diritti sessuali e riproduttivi;
un adeguato monitoraggio del sistema sanitario affinché i diritti umani delle donne vengano rispettati e gli autori delle violazioni dei diritti umani vengano puniti.
Scarica la scheda ‘Perú: venti anni di violazioni di diritti umani’