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A meno di quattro anni dall’inizio dei mondiali di calcio del 2022 in Qatar, un nostro nuovo rapporto dal titolo “Reality Check. The state of migrant workers’ rights with less than four years to go until the Qatar 2022 World Cup” evidenzia come il Paese stia venendo meno all’impegno di porre fine al massiccio sfruttamento di lavoratori migranti.
Nel novembre 2017 il Qatar aveva firmato un accordo con l’Organizzazione internazionale del lavoro per rivedere le sue leggi e porle in linea con gli standard internazionali.
Nel rapporto abbiamo esaminato lo stato d’attuazione del tanto decantato processo di riforme in atto in Qatar. Quanto abbiamo concluso è che le autorità locali devono fare molto di più per rispettare e proteggere in pieno i diritti di circa due milioni di lavoratori migranti.
Dal 2017, le autorità locali avevano introdotto varie norme destinate a migliorare la condizione dei lavoratori, tra cui la previsione di un salario minimo temporaneo, l’istituzione di comitati per la risoluzione delle controversie sul lavoro e la creazione di un fondo assicurativo e di sostegno ai lavoratori.
Inoltre, era stata abrogata la norma che obbligava la maggior parte dei lavoratori migranti a richiedere ai datori di lavoro un “permesso di uscita” per lasciare il paese.
Tuttavia, i limiti posti alle riforme hanno lasciato molti lavoratori migranti in pericolo di subire lavoro forzato, limitazioni di movimento e altre violazioni dei diritti umani.
“Resta poco tempo alle autorità del Qatar per lasciare un’eredità positiva dei mondiali del 2022: un sistema del lavoro in grado di porre fine allo sfruttamento e alla miseria che dominano la vita quotidiana dei lavoratori migranti“, ha dichiarato Stephen Cockburn, vicedirettore del programma Temi globali di Amnesty International.
“Il governo del Qatar ha fatto alcuni importanti passi avanti ma resta molto altro da fare per proteggere i diritti dei lavoratori. A oggi le riforme intraprese lasciano molti lavoratori in condizioni durissime, vulnerabili allo sfruttamento e alla violenza. I lavoratori che tornano nel loro paese lo fanno a mani vuote, senza risarcimenti né giustizia“, ha proseguito Cockburn.
Chiediamo al Qatar in primo luogo di abolire completamente il sistema dello sponsor che, nonostante alcuni recenti cambiamenti, continua a legare i lavoratori a datori privi di scrupoli anche per cinque anni.
A settembre 2018, avevamo denunciato il caso della Mercury MENA, un’azienda ingegneristica impegnata nella costruzione delle infrastrutture per i mondiali.
L’azienda ha tratto vantaggio dal sistema dello “sponsor” per sfruttare decine di lavoratori migranti.
L’azienda non ha versato migliaia di dollari in stipendi e versamenti pensionistici, mandando in rovina numerosi lavoratori migranti provenienti dall’Asia.
A seguito di nostre ricerche, era emerso che sui 34 ex lavoratori nepalesi della Mercury Mena, la blanda normativa sul lavoro in vigore in Nepal abbia contribuito al loro sfruttamento.
Le agenzie di reclutamento al servizio della Mercury MENA hanno illegalmente chiesto ingenti versamenti ai lavoratori, che sono stati così costretti a chiedere prestiti ad elevato interesse, contraendo debiti per saldare i quali si sono rassegnati a lavorare in condizioni di sfruttamento. Alcuni lavoratori hanno dovuto vendere le loro terre o ritirare i figli da scuola.
Qui la storia completa.
Sulla base del sistema dello sponsor, che rimane fermamente in vigore nonostante le parziali riforme, i lavoratori ancora oggi non possono cambiare occupazione senza il permesso dei loro datori di lavoro. In caso contrario rischiano di incorrere nel reato di “clandestinità” e di vedersi confiscare il passaporto.
Il salario minimo temporaneo è appena poco superiore ai 200 dollari e i nuovi tribunali istituiti per esaminare le controversie sul lavoro, tra cui il mancato versamento dello stipendio, sono sommersi dalle denunce, col risultato che centinaia di lavoratori migranti sono tornati a casa senza risarcimento né giustizia.
Le lavoratrici e i lavoratori domestici, nel frattempo, sono ancora obbligati a chiedere il “permesso di uscita” per lasciare il Paese. La legge introdotta nel 2017 a tutela del lavoro domestico è assai debole ed è causa di ricorrenti violazioni dei diritti umani.