Quello che gli operatori sanitari vogliono farci sapere

7 Dicembre 2020

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Gli operatori sanitari sono la spina dorsale dei sistemi sanitari

Da mesi gli operatori sanitari svolgono il loro lavoro in condizioni di eccezionale difficoltà. Nonostante l’aumento dei tassi di contagio da Covid-19 che si sta verificando in molte parti del mondo, i sacrifici sopportati dal personale sanitario non sono più in prima pagina e le manifestazioni di solidarietà nei loro confronti sono diminuite col protrarsi dell’emergenza. Mentre la corsa al vaccino accelera, tuttavia, è più importante che mai ascoltare le esperienze degli operatori sanitari. Il Covid-19 ha evidenziato e aggravato le debolezze croniche di alcuni sistemi sanitari e sono molte le lezioni che potremmo apprendere da questa pandemia. Le informazioni fornite dagli operatori sanitari devono essere tenute in considerazione e le loro preoccupazioni affrontate. È cruciale che ciò avvenga affinché in futuro sia rinforzata la tutela dei diritti umani e della vita delle persone.

Sulla base di questa premessa, Amnesty International ha chiesto al personale sanitario di 12 paesi di condividere l’esperienza vissuta nel corso della pandemia. Ecco cosa ne è emerso.

La carenza sistemica di infrastrutture

L’Organizzazione mondiale della sanità ha recentemente dichiarato che la “pandemia ha dimostrato le conseguenze del sotto-investimento cronico nella sanità pubblica”. In alcuni paesi infrastrutture carenti e attrezzature inadeguate hanno sopraffatto i sistemi sanitari già prima della pandemia.

Anara* è una neurologa in un ospedale del Kirghizistan. Ha lavorato in un reparto Covid-19 per un mese, tra agosto e settembre, e ha raccontato ad Amnesty International che le condizioni le “facevano venire voglia di piangere”:

Non sempre c’era luce sufficiente: gli interruttori si rompevano e i chirurghi li riparavano. A volte anche l’impianto idraulico si rompeva e c’erano solamente due tecnici per l’intero ospedale. Una volta una finestra si è rotta a causa del vento e abbiamo dovuto ripararla noi, pur temendo di lacerare i guanti chirurgici. Non avevamo neppure letti specifici per la terapia intensiva e dovevamo mettere i pazienti a terra per poter eseguire la rianimazione.[…] Ogni giorno venivo a lavorare e pensavo: voglio solo che oggi non muoia nessuno”.

Rado* fa il portantino in un ospedale del Madagascar. Dall’inizio della pandemia ha anche lavorato nell’obitorio improvvisato dell’ospedale, preparando i corpi per la sepoltura:

Molte cose mi creano ansia. Prima di tutto l’attrezzatura insufficiente. Non ci sono obitori adeguati qui, abbiamo dovuto svuotare un magazzino per metterci i corpi. Provate a pensarci: ho ricevuto la formazione in un ospedale che aveva attrezzature appropriate per la gestione delle salme, mentre qui possiamo solo accontentarci di ciò che abbiamo. Tutti gli ospedali dovrebbero avere un obitorio. Questo non è l’unico problema […] l’ospedale è in rovina”.

La disinformazione causa stigmatizzazione e ostilità

David* è un medico in Papua Nuova Guinea. Amnesty International ha precedentemente documentato come le normative del paese relative all’emergenza stabiliscano che solo il capo della Polizia e il primo ministro possano rilasciare informazioni sul Covid-19. David descrive come la disinformazione abbia contribuito al clima di ostilità contro il personale sanitario:

“All’inizio c’era l’idea sbagliata che il Covid-19 fosse come la peste. A marzo i pazienti erano spaventati dal personale sanitario, ma ora i lavoratori hanno i Dpi e le persone capiscono meglio. […] So di un’infermiera positiva cacciata di casa dalla sua famiglia: allora la gente non credeva che potesse essere negativa dopo la guarigione, pensava fosse come con l’Hiv, qualcosa che avrebbe avuto per sempre. C’è anche una piccola minoranza che ha concluso che la pandemia è una bufala. Combattere la disinformazione sui media mainstream è una sfida che dobbiamo affrontare. Poi c’è uno stigma relativo allo screening: ho parlato con due piloti che mi hanno raccontato che non avrebbero effettuato il test in caso di sintomi, per il timore di perdere il lavoro. La paura, specialmente nelle aree rurali, è la perdita di lavoro e reddito”.

Hira*, Pakistan, è una poliziotta. Nel paese Amnesty International ha registrato diversi casi di violenza contro gli operatori sanitari. Ci ha raccontato:

Abbiamo dovuto mettere in condizioni di sicurezza gli ospedali, che venivano abitualmente presi d’attacco dai familiari delle vittime del Covid-19. Gli ospedali non restituivano i corpi, come previsto dal protocollo per contrastare la diffusione del virus e questo significava doverli sorvegliare. Inoltre, dovevamo stazionare vicino ai pazienti sospetti di essere positivi al Covid-19. Dovevamo anche essere posizionati ai punti di entrata e di uscita delle zone di blocco, aree alle quali nessuno può accedere e dalle quali non ci si allontana. Abbiamo installato delle barriere, ma per far davvero rispettare il blocco dovevamo stare lì. Le persone non hanno reagito bene, si sono agitate. Fare i conti con questa situazione e intanto preoccuparci dell’esposizione al contagio è stato faticoso. Lavoravamo per 24 ore di seguito, quasi senza cambi turno e molti di noi si sono ammalati”.

Per contrastare lo stigma nei confronti degli operatori sanitari e, più in generale, nei confronti dei lavoratori “essenziali”, gli stati devono fornire informazioni accurate e verificate sul Covid-19, incluse quelle relative alla sua diffusione e prevenzione. Devono anche dichiarare, pubblicamente, il loro supporto agli operatori sanitari.

Ad alcune vite più valore che ad altre

Diversi operatori sanitari hanno riferito ad Amnesty International di ritenere che le decisioni subite in merito alla priorità con cui sono stati distribuiti i Dpi li hanno lasciati senza un’adeguata protezione.

Tshepo*, Sudafrica, è una radiologa e lavora in ospedale:

Alcune professioni hanno avuto la priorità nel ricevere una protezione adeguata. All’inizio della pandemia i reparti ospedalieri sono stati classificati come a basso o ad alto rischio. Il nostro è stato classificato come a basso rischio, anche se siamo in contatto con pazienti Covid-19: ciò significa che ci venivano forniti una sola mascherina chirurgica, una sola visiera e un solo grembiule di plastica per turno. Ho contratto il Covid-19 a marzo. […] Ora abbiamo i dispositivi di protezione, ma è frustrante pensare di non essere stati protetti fin dall’inizio, soprattutto perché il mio corpo non si è ancora ristabilito: il virus ha danneggiato il mio apparato respiratorio“.

Hanitra* responsabile di magazzino in un ospedale in Madagascar:

All’inizio solo i medici ricevevano i Dpi. Hanno ricevuto indumenti nuovi, noi in seguito li abbiamo lavati e riutilizzati. Un modo di fare degradante. Ci siamo lamentati, ma per molto tempo siamo stati ignorati“.

Robert*, tecnico farmaceutico in un ospedale in Indonesia:

Alcune politiche non hanno senso. In passato i farmacisti erano classificati come personale di supporto medico, poi siamo stati ridotti a personale non medico. La viviamo come una mancanza di rispetto: abbiamo studiato, lavoriamo sodo e abbiamo competenze specifiche; i pazienti hanno bisogno di sapere come assumere i farmaci e i medici, questo, non lo capiscono davvero. In più siamo in contatto con pazienti Covid-19: nel reparto di farmacologia ci sono parecchie persone che hanno contratto il virus“.

Ci sono molte ragioni per le quali i lavoratori di tutto il mondo hanno difficoltà ad accedere ai Dpi, non ultimo il fatto che esiste una reale carenza di tali dispositivi a livello globale. L’Oms ha pubblicato delle linee guida sulla distribuzione dei Dpi: gli standard di protezione per i lavoratori, a livelli di rischio equivalenti, dovrebbero essere gli stessi.

 

Gli operatori sanitari pagano il prezzo di politiche fallimentari

Rhea* lavora come medico nell’ospedale di un’isola greca. La Grecia è uno dei numerosi paesi in cui Amnesty International ha documentato l’impatto negativo delle misure di austerità sui servizi sanitari. Reha ci ha raccontato:

Non c’è stato alcun supporto al sistema sanitario nazionale e al personale per molti anni. [La nostra isola] affronta una serie di sfide particolari: distanza di ore dalla terraferma e migliaia di rifugiati che fanno affidamento sul sistema sanitario nazionale. Gli ospedali di provincia fanno difficoltà ad attirare i medici. Sono stati annunciati posti vacanti, ma gli stipendi sono così bassi che non vi è alcun incentivo a lavorare qui. […] Come operatori sanitari conosciamo le esigenze dei luoghi in cui lavoriamo. Non c’erano né una pianificazione né infrastrutture adeguate, sia in termini di spazio che di personale aggiuntivo, per consentire l’integrazione di pazienti Covid-19 in altri ospedali greci. Di conseguenza, il nostro personale, già stanco, è stato gravato ancora di più”.

Come molti lavoratori, Rhea ha sottolineato la sua dedizione al lavoro:

Le condizioni sono pessime, ma non me ne rammarico. Sono stanca e ci sono momenti in cui sono arrabbiata per come i governi ci hanno trattato. Ma sono sempre felice di andare a lavorare“.

La rabbia degli operatori socio-sanitari in Europa

Delle decine di lavoratori con cui abbiamo parlato, gli operatori socio-sanitari e coloro che prestano assistenza domiciliare sono tra i più arrabbiati ed esausti.

Annalisa* lavora in una casa di riposo in Italia. L’Oms ha affermato che “nella regione europea, l’assistenza a lungo termine è stata spesso notoriamente trascurata” e ha definito l’elevato numero di vittime nelle strutture di assistenza a lungo termine una “tragedia umana inimmaginabile”.

Annalisa ha raccontato ad Amnesty International:

Non siamo mai stati convocati per un incontro o consultati in alcun modo dalla nostra direzione. Non abbiamo mai ricevuto istruzioni precise. Durante il picco quasi tutti i miei colleghi si sono ammalati e circa la metà dei pazienti è morta. Non avevo mai visto così tanti decessi in vita mia – c’erano 2-3 ondate al giorno. Mi sentivo così impotente e arrabbiata. Nella nostra regione, le strutture per gli anziani agivano come una barriera per evitare che il sistema sanitario crollasse completamente. […] Abbiamo chiesto i tamponi all’inizio di marzo, ma non ne abbiamo ricevuti fino alla fine di maggio. Se le persone fossero state sottoposte a test e avessero chiesto di rimanere a casa fino a quando non fossero arrivati ​​i risultati, avrebbe potuto salvare tutti gli altri. Continuo a essere molto preoccupata per la situazione attuale e per il futuro. Gli ospiti che riceviamo ora sono ancora più fragili […] Non sarei in grado di affrontare tutte quelle morti una seconda volta“.

Laly* lavora come assistente domiciliare in Francia:

Non abbiamo oggetti di fronte a noi, ma esseri umani. Ciò significa che dovremmo essere considerati un servizio pubblico ed essere supportati dal settore sanitario. Durante il picco, alcuni dei miei colleghi sono andati in farmacia a chiedere le mascherine e sono stati respinti perché non erano nell’elenco dei caregiver. Penso che ci sia una mancanza di comprensione nel nostro governo circa l’aspetto del supporto emotivo che è parte del nostro lavoro. Durante il lockdown abbiamo dovuto svolgere il ruolo di psicologo, di assistente e anche di ‘famiglia’. Il nostro lavoro consiste nel supportare una persona dal momento in cui si alza fino a quando va a letto – a volte lavoriamo 24 ore su 24. Eppure, molte persone hanno contratti precari e vengono pagate al di sotto del salario minimo. Il governo sottovaluta davvero la nostra rabbia. […] Siamo un settore malato e siamo stanchi“.

Remunerazioni basse

Lovasoa* è un autista di ambulanze in Madagascar:

La retribuzione nelle istituzioni sanitarie è molto, molto bassa. Non è adatta alle nostre esigenze: è difficile per le persone mandare i propri figli a scuola, per esempio. C’è molta corruzione in Madagascar e penso che ciò sia in parte dovuto ai bassi stipendi di alcuni settori. Se le persone potessero pagare l’affitto, l’elettricità, le tasse scolastiche, penso che il Madagascar sarebbe in grado di allontanarsi dalla corruzione“.

Sarah* lavora in una struttura residenziale assistita nel Regno Unito. Le case di riposo sono state duramente colpite nel corso degli anni dalle misure di austerità del governo britannico e i tagli sono continuati anche di recente. Ci ha raccontato:

Durante la pandemia molte agenzie esterne sono intervenute per fornire supporto presso la casa di cura. È stato possibile vedere la differenza [nella qualità dell’assistenza]. Non voglio dire che siano pessime, ma il personale dipendente conosce la routine di ogni residente. I lavoratori dell’agenzia sono pagati di più, a volte il doppio rispetto a noi. Non è giusto. […] Abbiamo deciso di aderire a un sindacato perché avevamo bisogno di sostegno e i nostri capi non stavano intraprendendo alcuna azione. Meritiamo di essere trattati con uguaglianza, dignità e rispetto. […] Mi sento davvero triste perché alcuni dei miei colleghi non pensano di meritare una retribuzione o condizioni migliori. Alcune persone hanno detto che non era il momento per chiedere aumenti salariali, ma quando sarebbe il momento giusto? Siamo un’estensione del National Health Service (Sistema sanitario nazionale) e vogliamo essere trattati come il personale del NHS, con un salario dignitoso e condizioni dignitose“.

Buone pratiche e aspetti positivi

Ntombezulu* è un’assistente socio-sanitaria in eSwatini:

Non ho paura perché ho ricevuto una formazione. Ho partecipato a un seminario in cui ho ricevuto indicazioni sui protocolli relativi alla distanza, su come indossare correttamente la mascherina e lavarsi le mani. Questo mi ha aiutato a non contrarre il virus anche se sono stata in contatto diretto con due persone infette“.

Tiina*, Finlandia, infermiera:

La cosa buona della pandemia è che ora tutti si prendono molta più cura dell’igiene nella nostra unità. Questo proteggerà i nostri pazienti da altre infezioni e dal Covid-19. Il mio datore di lavoro ci ha dato un bonus per il lavoro durante l’epidemia, ma non tutti in Finlandia hanno ricevuto un bonus Covid-19. Quasi tutti qui pensano che gli infermieri siano sottopagati, ma altre priorità si intromettono sempre“.

Laly, Francia:

Il lato positivo è il rafforzamento del nostro legame con i pazienti. A volte eravamo il loro unico punto di contatto e questo ha cambiato la visione che avevano di noi. Abbiamo ricevuto i ringraziamenti delle famiglie: da questo punto di vista è stato arricchente e positivo“.

Anara in Kirghizistan:

Un gruppo di giovani ha tenuto un concerto per noi. Sono grata per il loro coraggio. Altre persone hanno accettato di aiutarci gratuitamente, per esempio degli avvocati ci hanno fornito consigli per la difesa dei nostri diritti, senza addebitarci costi che non possiamo permetterci“.

Rado in Madagascar:

Ho acquisito nuove abilità svolgendo un lavoro che non avevo mai fatto prima. Ho anche incontrato persone che prima non mi sarei aspettato: senatori, membri del parlamento, funzionari di alto rango. Ho avuto molti scambi con loro perché ero io a prendermi cura dei corpi dei loro familiari“.

Gli operatori sanitari sono la spina dorsale dei sistemi sanitari. Sono stati giustamente lodati come eroi della pandemia Covid-19, ma non possiamo permettere ai governi di fare affidamento sui loro sacrifici. Sono individui e, come tali, godono di diritti umani: ascoltare le loro opinioni e proteggere il loro benessere è essenziale sia per loro che per noi. Hanno diritto a luoghi di lavoro sicuri, condizioni di lavoro dignitose, alla libertà di parlare e svolgere il proprio lavoro.

Ora che il vaccino inizia a diventare una realtà, a ogni operatore sanitario che si mette a rischio per noi deve essere fornita una protezione adeguata e l’accesso alla vaccinazione, in qualsia parte del mondo si trovi. È fondamentale che tutti i governi prevedano un’adeguata protezione degli operatori sanitari, mentre sviluppano e lanciano piani di vaccinazione e che includano nella definizione di “operatore sanitario” tutti coloro che lavorano nel settore sanitario e sono coinvolti nella fornitura di assistenza sanitaria a qualsiasi titolo.

* Tutti i nomi sono stati modificati per proteggere le identità