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Secondo un rapporto diffuso oggi da Amnesty International, studenti e studentesse cinesi e di Hong Kong che studiano in Europa e nell’America del Nord sono sottoposti a intimidazioni, minacce e sorveglianza da parte delle autorità cinesi che, in questo modo, cercano d’impedire loro di occuparsi di temi “sensibili” o di politica.
Gli studenti e le studentesse intervistati da Amnesty International hanno raccontato di essere stati fotografati e seguiti mentre prendevano parte a proteste e che, a causa del loro attivismo all’estero, le famiglie in patria sono state prese di mira e minacciate dalla polizia.
L’organizzazione per i diritti umani ha svolto 32 lunghe interviste con studenti e studentesse di università di otto stati: Belgio, Canada, Francia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti d’America e Svizzera.
Rowan* ha raccontato di aver sentito suo padre poche ore prima che lei prendesse parte a una commemorazione del massacro di Tiananmen del 1989. Lui le ha detto che era stato contattato da un funzionario della sicurezza che lo aveva ammonito a “insegnarle a non prendere parte a eventi che possono danneggiare la reputazione della Cina nel mondo”.
Rowan* non aveva mai comunicato il suo vero nome alle altre persone coinvolte nella protesta né aveva fatto post sul suo coinvolgimento. È rimasta sconvolta dalla velocità con cui le autorità cinesi l’hanno identificata, hanno rintracciato il padre e lo hanno usato per avvisarla di non esprimere ulteriore dissenso verso il governo:
“Il loro messaggio era chiaro: ti stiamo osservando e, anche se siamo dall’altra parte del pianeta, possiamo comunque raggiungerti”, ha dichiarato ad Amnesty International.
Da alcuni anni un gran numero di studenti e studentesse all’estero sta prendendo parte a iniziative pubbliche di critica nei confronti del governo cinese, come le proteste del “Libro bianco” del 2022 nella Cina continentale, il movimento di Hong Kong per la democrazia del 2019 e le commemorazioni annuali del massacro di Tiananmen del 1989. Queste attività hanno attirato l’attenzione delle autorità di Pechino che spesso hanno fatto scattare rappresaglie.
Si tratta di quella che Amnesty International definisce “repressione transnazionale”: l’azione di un governo per controllare o impedire dissenso e critiche da parte dei suoi connazionali all’estero, in violazione dei loro diritti.
Quasi un terzo degli studenti e delle studentesse intervistati da Amnesty International ha dichiarato che funzionari cinesi hanno minacciato i familiari in Cina: revocando il loro passaporto, ottenendone il licenziamento, impedendogli di ottenere promozioni o benefici pensionistici e persino limitando fisicamente la loro libertà. In almeno tre casi la polizia cinese ha fatto pressioni perché le famiglie interrompessero il sostegno finanziario ai figli all’estero.
Molte delle persone intervistate da Amnesty International hanno riferito di sentirsi sotto sorveglianza. Quasi la metà di esse ha affermato di essere stata fotografata o registrata nel corso di interventi in pubblico. Sebbene queste persone non abbiano potuto fornire prove decisive sull’identità di quei soggetti, le ricerche di Amnesty International hanno documentato un modello di osservazione pressoché identico in luoghi e contesti diversi, tale da suffragare i sospetti degli studenti e delle studentesse.
Oltre la metà degli studenti e delle studentesse intervistati da Amnesty International ha dichiarato di autocensurare regolarmente conversazioni e post sulle piattaforme social, anche su quelle non basate in Cina come X, Facebook e Instagram. In un caso, la polizia ha mostrato ai genitori di uno degli studenti all’estero la trascrizione di una conversazione su WeChat con altri familiari.
Quasi un terzo degli studenti e delle studentesse ha subito censura sulle piattaforme social cinesi, come WeChat. Alcuni hanno cercato di registrarsi associando l’account a un numero di telefono estero ma sono stati comunque censurati. L’account WeChat di uno studente è stato temporaneamente sospeso dopo che aveva pubblicato un post su una protesta del “Libro bianco” in Germania.
Pressoché tutti gli studenti e le studentesse intervistati hanno dichiarato di praticare l’autocensura nelle loro interazioni sociali per il timore di subire rappresaglie da parte delle autorità cinesi: alcuni, limitando la partecipazione e i dibattiti durante le lezioni, altri cambiando l’oggetto dei loro studi o rinunciando completamente a prospettive di carriera accademica.
Gli studenti e le studentesse provenienti da Hong Kong hanno dichiarato che le leggi repressive introdotte nella città, come la Legge sulla sicurezza nazionale e il recente Articolo 23, hanno accresciuto i loro timori dato che quelle norme possono essere usate per prendere di mira le persone ovunque si trovino.
Logan* ha avuto così paura di essere identificato dalle autorità di Hong Kong da aver deciso di rinunciare al percorso accademico che aveva scelto:
“Avrei voluto davvero pubblicare la mia tesi ma avevo così paura che ho deciso di non farlo”, ha raccontato ad Amnesty International.
Oltre la metà degli studenti e delle studentesse ha dichiarato che la paura ha dato origine a problemi di salute mentale come stress, traumi, paranoie e depressione. Uno studente è stato ricoverato in ospedale. Otto studenti hanno interrotto ogni rapporto con le persone loro care in patria per proteggerle da rappresaglie delle autorità cinesi ma così hanno finito per sentirsi ancora più isolati e soli.
Molti studenti e studentesse hanno anche ritenuto necessario prendere le distanze dai loro colleghi di studio cinesi, temendo che commenti od opinioni politiche potessero essere riferiti alle autorità in Cina. Anche questo ha esacerbato il senso di isolamento. A contribuire alla paura c’è anche l’istituzione, da parte delle autorità di Pechino e di Hong Kong, di “linee telefoniche di emergenza” per segnalare altre persone.
Quasi la metà degli studenti e delle studentesse ha dichiarato di aver paura di tornare in patria. Sei studenti sono arrivati alla conclusione di non avere altra opzione che chiedere asilo politico al termine degli studi, onde evitare di essere perseguitati al rientro in Cina.
Alcuni di loro hanno raccontato che persino personale universitario non cinese si autocensura quando si tratta di attivismo collegato alla Cina. Una ricercatrice ha interrotto i rapporti con uno studente cinese che aveva espresso sostegno alle proteste del “Libro bianco”, temendo che in caso contrario le sue opportunità di fare ricerca in Cina sarebbero state compromesse.
Si stima che gli studenti e le studentesse cinesi all’estero siano circa 900.000. Amnesty International chiede ai governi e alle università ospitanti di fare di più per proteggere i diritti di chi subisce le minacce della repressione transnazionale: ad esempio, istituendo meccanismi di segnalazione in caso di minacce ed esprimendo condanne quando si verificano casi del genere.
All’inizio del 2024 Amnesty International ha scritto a 55 importanti università negli otto stati oggetto della sua ricerca chiedendo quali misure fossero state poste in essere per proteggere gli studenti e le studentesse dalla repressione transnazionale. Ha ricevuto 24 risposte, 20 dall’Europa e quattro dall’America del Nord.
Mentre alcune di queste istituzioni hanno destinato risorse al sostegno dei diritti degli studenti e delle studentesse, complessivamente questa risposta pare inadeguata ad affrontare in modo efficace i problemi emersi dalla ricerca di Amnesty International.
Nel frattempo, la reazione repressiva di molte università statunitensi alle proteste studentesche in favore dei diritti dei palestinesi, secondo uno schema ripreso più recentemente anche dalle università europee, sta evidenziando che le amministrazioni universitarie devono fare molto di più per adempiere alla loro responsabilità di proteggere i diritti degli studenti e delle studentesse alla libertà di espressione e di protesta pacifica.
*Nome di fantasia per proteggere la sicurezza di chi ha preso parte alle interviste.