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A partire dal 7 maggio 2009, in aperto spregio delle norme internazionali sui diritti umani, del diritto internazionale marittimo e dei principi umanitari, l’Italia ha trasportato forzatamente in Libia o altrimenti consegnato alle autorità libiche centinaia di donne, uomini e bambini, migranti e richiedenti asilo, che tentavano di raggiungere l’Europa imbarcandosi attraverso il Mediterraneo su mezzi di fortuna, rischiando la vita per sfuggire a persecuzioni, torture, altre violazioni dei diritti umani e condizioni di povertà estrema.
Il 75 per cento delle persone che arrivano in Italia via mare sono richiedenti asilo e, secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), tra le persone rinviate in Libia sulla base di questa prassi vi erano cittadini somali ed eritrei, bisognosi di protezione. Nel luglio 2009, dopo aver incontrato le 82 persone intercettate all’inizio del mese dalla Marina Militare Italiana a 30 miglia da Lampedusa e trasferite forzatamente su una motovedetta a comando libico, lo stesso Unhcr ha dichiarato che non risultava che le autorità italiane a bordo della nave avessero cercato di stabilire la nazionalità delle persone coinvolte o le motivazioni della fuga. Di quel gruppo, smistato in centri di detenzione dopo l’arrivo in Libia, facevano parte 76 cittadini eritrei tra cui 9 donne e 6 bambini. Alcuni di loro hanno dichiarato all’Unhcr di aver avuto necessità di cure mediche in seguito all’uso della forza nei loro confronti da parte dei militari italiani, di essersi visti confiscare effetti personali fra cui documenti di vitale importanza e di non aver ricevuto cibo durante l’operazione, durata circa 12 ore.
Le operazioni di rinvio forzato sono proseguite nel corso dell’estate fino ad interessare, secondo quanto riportato dagli organi di informazione, oltre 1200 persone a tutto agosto 2009. Il 30 agosto un gruppo con oltre 70 persone a bordo, per lo più somali ed eritrei, ha subito la medesima sorte.
Tra gli obblighi dell’Italia nei confronti di chiunque si trovi sottoposto alla propria giurisdizione, vi è quello di non rinviare nessuno in un paese in cui sarebbe a rischio di persecuzioni, torture e altre gravi violazioni dei diritti umani (non refoulement) e, rispetto a chi si trovi in condizioni di pericolo in mare, c’è quello di condurlo senza indugio in un posto sicuro, ossia un luogo che presenti le caratteristiche minime per garantire l’assistenza umanitaria e un’equa valutazione delle domande di asilo. La Libia non ha queste caratteristiche e l’Italia è responsabile, assieme alle autorità libiche, per quanto avviene alle persone ricondotte in Libia con la forza.
La Libia non ha un sistema d’asilo funzionante e, nonostante una bozza di legge sull’asilo sia attualmente in discussione, Amnesty International non ha ricevuto informazioni su tale testo. Durante una missione svolta in Libia tra il 15 e il 23 maggio 2009, i delegati di Amnesty International hanno visitato il centro di detenzione di Misratah, dove centinaia di cittadini non libici, per lo più provenienti dall’Eritrea ma anche da Somalia, Nigeria e Mali, erano detenuti in condizioni di grave sovraffollamento. Al momento della visita, nel centro si trovavano tra le 600 e le 700 persone, a fronte di un’asserita capacità massima di 350 persone. I detenuti risultavano costretti a dormire sul pavimento, con servizi sanitari insufficienti e senza alcuna forma di privacy. Molte delle persone detenute al suo interno vi erano state condotte dopo essere state fermate dalle autorità libiche mentre tentavano di raggiungere l’Italia o altri paesi dell’Europa meridionale. Amnesty International ha potuto ascoltare le testimonianze di diversi migranti detenuti, diversi dei quali hanno dichiarato che le condizioni a Misratah sono migliori che in altri centri in Libia, dove essi erano stati precedentemente trattenuti. Durante la visita in Libia, Amnesty International ha inoltre raccolto preoccupanti denunce di trattamenti discriminatori e degradanti e di maltrattamenti nei confronti di migranti originari di paesi dell’Africa subsahariana, da parte di cittadini libici e delle forze di polizia libiche.
Negli incontri con Amnesty International durante la missione, le autorità libiche hanno negato la presenza di rifugiati nel territorio dello stato e hanno indicato di non avere alcuna intenzione di aderire alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Intanto, l’Unhcr può operare a Tripoli, ma la Libia rifiuta di firmare accordi che ne riconoscano formalmente la presenza.
Le operazioni di pattugliamento e gli altri aspetti della cooperazione operativa tra Italia e Libia in acque internazionali si basano sul Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due paesi concluso a Tripoli dal presidente del Consiglio Berlusconi e dal leader libico Gheddafi il 30 agosto 2008 e su un Protocollo di collaborazione del 29 dicembre 2007. Quest’ultimo è stato sottoscritto dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato e dal segretario del Comitato popolare generale per il collegamento estero e la cooperazione internazionale Abdurrahman Mohamed Shalgam, contestualmente a un Protocollo aggiuntivo a firma del capo della Polizia Antonio Manganelli e di Faraj Nasib Elqabaili, sottosegretario del Comitato popolare generale della pubblica sicurezza. Sulla base degli accordi citati il 14 maggio 2009 tre motovedette della Guardia di Finanza sono state consegnate dal ministro dell’Interno Maroni al governo libico per il pattugliamento del Mediterraneo.
Amnesty International si è più volte rivolta alle autorità Italiane per chiedere di cessare al più presto le operazioni di rinvio forzato e, precedentemente, per sottolineare quanto rischiosa potesse risultare un’agenda diplomatica tra Italia e Libia che lasciasse fuori i diritti umani. Malauguratamente, ciascuno dei trattati citati è stato concluso senza la trasparenza necessaria e senza che le autorità prestassero ascolto alle richieste delle organizzazioni non governative per i diritti umani. Rispetto ai rinvii forzati non è giunta sinora alcuna risposta concreta, né rassicurazione circa la volontà dell’Italia di rientrare nell’alveo della legalità internazionale.
Dal 10 al 12 giugno 2009 il capo di stato libico Muhammar Gheddafi ha visitato l’Italia incontrando le massime autorità, tra le quali il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Durante la conferenza stampa congiunta con il presidente Berlusconi, Gheddafi ha detto che i migranti che arrivano in Italia dall’Africa sono ‘gente che vive nella foresta, molto spesso nel deserto (…) non hanno neanche un’identità, politica o personale’. Il presidente Berlusconi non ha commentato, né ha in altro modo mostrato di dissentire.
In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, Amnesty International accusa i governi europei di mettere in pericolo le vite dei rifugiati negando loro protezione, chiudendo le porte dell’Europa e ignorando i diritti di chi chiede protezione. Leggi il comunicato stampa
In occasione della visita in Italia di Muhammar Gheddafi, Amnesty International ha scritto al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, ai presidenti di Camera e Senato e ai ministri degli Esteri, degli Interni e delle Pari opportunità, chiedendo che sia posta fine alla cooperazione poco trasparente e priva di garanzie in materia di diritti umani tra Italia e Libia. Leggi il comunicato stampa
La mattina del 6 maggio, tre imbarcazioni con 227 persone a bordo hanno lanciato un allarme di soccorso mentre si trovavano a circa 50 miglia a sud dell’isola di Lampedusa. Amnesty International accusa il governo italiano e quello maltese di non aver protetto i diritti dei migranti e dei richiedenti asilo soccorsi in mare. Leggi il comunicato stampa.
In vista dell’esame del disegno di legge cosiddetto sulla ‘sicurezza’ (ddl n.733) e del disegno di legge di ratifica del trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia (ddl n.1333), la Sezione Italiana di Amnesty International chiede al Senato di mostrare attenzione verso i diritti umani. Leggi il comunicato stampa.