Singapore: proseguono le esecuzioni capitali nel tentativo di fermare i reati di droga

11 Ottobre 2017

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Singapore, rapporto di Amnesty International: nonostante le modeste riforme del 2013, proseguono le esecuzioni capitali nell’errato tentativo di fermare i reati di droga

Negli ultimi anni Singapore ha continuato a fare affidamento sull’obbligatorietà della pena di morte, in contrasto col diritto internazionale, col risultato che decine di autori di lievi reati di droga sono stati condannati alla pena capitale.

Lo afferma Amnesty International in un rapporto intitolato “Collabora o muori”, che evidenzia come le riforme del 2013 da un lato abbiano favorito la diminuzione delle condanne a morte e dall’altro abbiamo rimesso la decisione sulla vita e la morte degli imputati nelle mani dei magistrati che conducono le indagini anziché in quelle dei giudici.

“Singapore ama descriversi come un modello di progresso e prosperità ma il suo uso della pena di morte mostra un flagrante disprezzo per la vita umana. Le autorità fanno affidamento su leggi spietate che, nella maggior parte dei casi, colpiscono coloro che si trovano ai livelli più bassi della catena criminale, spesso provenienti da ambienti svantaggiati”, ha dichiarato Chiara Sangiorgio, consulente di Amnesty International sulla pena di morte.

“Le riforme introdotte nel 2013 hanno rappresentato un passo avanti nella giusta direzione e hanno consentito ad alcuni detenuti di scampare all’impiccagione, ma negli aspetti chiave sono risultate insufficienti sin dall’inizio”, ha aggiunto Sangiorgio.

“Singapore esercita un’influenza ben superiore alle sue dimensioni sia in Asia che nel resto del mondo. Il governo dovrebbe andare oltre queste riforme ponendo fine alle esecuzioni una volta per tutte”, ha commentato Sangiorgio.

Le ricerche di Amnesty International, frutto di un’accurata analisi di atti giudiziari, mostrano che i tribunali di Singapore continuano ad applicare l’obbligatorietà della pena di morte nei casi di traffico di droga anche se le riforme suggerirebbero maggiore moderazione.

L’obbligatorietà delle condanne a morte significa che i giudici non possono prendere in considerazione circostanze attenuanti sulla natura del reato e del reo.

La maggior parte delle persone messe a morte negli ultimi quattro anni per reati di droga era in possesso di quantità relativamente esigue di droga e molte avevano sostenuto di essere entrate nello spaccio di stupefacenti per estinguere debiti o a causa della disoccupazione.

Con le riforme del 2013 gli imputati di reati di droga dovrebbero poter evitare l’obbligatorietà della condanna a morte fornendo sufficiente cooperazione alle autorità inquirenti durante gli interrogatori o il processo. Tuttavia, la decisione sulla sufficienza della cooperazione resta nelle mani dei magistrati e non in quelle dei giudici e la valutazione viene fatta a porte chiuse mediante procedure del tutto prive di trasparenza.

“L’obbligatorietà della condanna a morte deve terminare immediatamente. Anche se negli ultimi anni le condanne a morte sono diminuite, il fatto che vengano tuttora emesse è motivo di grande preoccupazione”, ha sottolineato Sangiorgio.

Uno strumento sbagliato per combattere la criminalità

Le autorità singaporeane continuano a giustificare il mantenimento della pena di morte giudicandola uno strumento efficace per combattere la criminalità. Nel 2016, di fronte alle Nazioni Unite, il ministro degli Affari esteri Vivian Balakrishnan ha dichiarato: “Riteniamo che la pena di morte per i reati di droga e di omicidio siano stati fondamentali per tenere Singapore un paese libero dalla droga e renderlo sicuro”.

Come confermato da molteplici studi, anche delle Nazioni Unite, non vi è alcuna prova che la pena di morte abbia un effetto deterrente superiore rispetto ad altre sanzioni, come ad esempio l’ergastolo.

“Singapore si sbaglia se pensa che la pena di morte sia uno strumento efficace per ridurre i livelli di criminalità. La realtà è che la pena capitale è la massima punizione crudele, inumana e degradante e non ci rende più sicuri: lo ha riconosciuto gran parte dei paesi del mondo”, ha commentato Sangiorgio.

“Singapore dovrebbe immediatamente sospendere l’applicazione della pena di morte in vista dell’abolizione finale. Nel breve periodo, dovrebbe rendere coerente il suo sistema giudiziario col diritto internazionale e assicurare che i condannati a morte beneficino di tutte le protezioni di legge garantite dalle norme e dagli standard internazionali”, ha aggiunto Sangiorgio.

La repressione nei confronti degli attivisti

Dopo l’introduzione delle riforme del 2013 le autorità di Singapore hanno reagito sempre più duramente nei confronti degli attivisti abolizionisti, compresi gli avvocati. Una legge entrata in vigore nel 2016 ha inasprito le già severe limitazioni alla possibilità di criticare le sentenze dei tribunali.

Nell’agosto 2017, ad esempio, l’Alta corte ha emanato una multa equivalente a oltre 4000 euro nei confronti dell’avvocato di un condannato a morte che aveva criticato su Facebook il sistema giudiziario nell’imminenza dell’impiccagione del suo cliente.

“Le autorità singaporeane non hanno mai dedicato grande attenzione al diritto alla libertà d’espressione e ora stanno cercando sempre di più di azzerare il dibattito sulla pena di morte. Le continue vessazioni nei confronti di chi sostiene il diritto alla vita devono cessare immediatamente”, ha concluso Sangiorgio.

Ulteriori informazioni

Rispetto agli anni Novanta, quando la città-stato era tra i paesi col più alto numero di esecuzioni pro-capite e metteva a morte decine di persone all’anno, Singapore ha fatto importanti passi avanti.

Negli ultimi tre anni sono state eseguite 10 condanne a morte (quattro delle quali nel 2016) e ne sono state emesse 17, tutte per reati di droga.

I reati di droga non rientrano nella categoria dei “reati più gravi” ai quali secondo il diritto internazionale dev’essere limitata l’applicazione della pena di morte.

Amnesty International si oppone alla pena di morte in tutti i casi senza eccezione, a prescindere dalla natura o dalle circostanze del reato, della colpevolezza, innocenza o altre caratteristiche della persona condannata o del metodo d’esecuzione impiegato. La pena di morte viola il diritto alla vita proclamato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani ed è la massima punizione crudele, inumana e degradante.

FINE DEL COMUNICATO

Roma, 11 ottobre 2017

Il rapporto “Collabora o muori“.

Per interviste:

Amnesty International Italia – Ufficio Stampa

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