Perché ci opponiamo alle esportazioni di armi e sistemi militari all'Egitto?
Per tre ragioni. L’Egitto sostiene direttamente l’offensiva militare in Libia del generale Haftar fornendo basi di supporto e, probabilmente, materiali militari alle truppe di Haftar. L’intervento militare del sedicente “Consiglio nazionale di transizione libico” configura in Libia una situazione di conflitto armato difficile da smentire. A tal riguardo la legge n.185 del 1990, che regolamenta le esportazioni di armamenti, prevede espressamente il divieto ad esportare armamenti e sistemi militari “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere” (art.1, c.6a). La stessa legge prevede, inoltre, il divieto ad esportare armamenti e sistemi militari “verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione” (art. 1, c. 6b).
In Egitto, a seguito del colpo di Stato promosso dal generale Abdel Fattah al Sisi, le autorità hanno fatto ricorso a una serie di misure repressive contro i manifestanti e i dissidenti, tra cui sparizioni forzate, arresti di massa, torture e altri maltrattamenti, uso eccessivo della forza e gravi misure di limitazione della libertà di movimento. Nel corso degli ultimi mesi le forze di sicurezza hanno arrestato e detenuto arbitrariamente almeno 20 giornalisti per aver espresso pacificamente le loro opinioni. Le autorità hanno continuato a limitare gravemente la libertà di associazione delle organizzazioni per i diritti umani e dei partiti politici. A seguito delle proteste del 20 settembre 2019, la Procura suprema di sicurezza dello stato (SSSP) ha ordinato la detenzione di migliaia di persone in attesa di indagini in relazione alle accuse vagamente correlate al “terrorismo”. L’ampio ricorso a tribunali eccezionali ha portato a processi gravemente ingiusti e, in alcuni casi, a condanne a morte. La tortura è diffusa nei luoghi di detenzione formali e informali e le condizioni di detenzione sono disastrose. Dozzine di lavoratori e sindacalisti vengono arbitrariamente arrestati e processati per aver esercitato il loro diritto di sciopero e manifestazione.
La situazione è stata ripetutamente denunciata dalle associazioni per i diritti umani e da diverse risoluzioni del Parlamento europeo (cfr. Risoluzione 13 dicembre 2018 e Risoluzione 24 ottobre 2019). A tal riguardo, la legge n. 185 del 1990 prevede espressamente il divieto ad esportare armamenti e sistemi militari “verso i paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Unione europea o del Consiglio d’Europa” (art. 1, c. 6c).
Le autorità egiziane non solo non hanno mai contribuito a fare chiarezza sul barbaro omicidio di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto, ma hanno ripetutamente fornito ai magistrati italiani informazioni insufficienti o parziali.
L’Italia, inoltre, continua a chiedere il rilascio di Patrick Zaki, attivista, ricercatore egiziano di 27 anni e studente dell’Università di bologna, che si trova dal 7 febbraio 2020 in detenzione preventiva fino a data da destinarsi. Rischia fino a 25 anni di carcere per dieci post di un account Facebook che la sua difesa considera ‘falso’, ma che ha consentito alla magistratura egiziana di formulare pesanti accuse di “incitamento alla protesta” e “istigazione a crimini terroristici”.
In definitiva, questa nuova fornitura militare non solo è in chiara violazione delle norme vigenti, ma rappresenta un esplicito sostegno al regime repressivo instaurato dal generale Al Sisi all’indomani del colpo di Stato del luglio 2013.