‘Stranieri in patria’: il 9 agosto delle popolazioni native dell’Argentina

8 Agosto 2013

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Vogliamo vivere come esseri umani. Non vogliamo essere visti come stranieri nel nostro paese, persone povere e inutili. Vogliamo vivere senza discriminazione. Non auspichiamo bagni di sangue, vogliamo solo che la nostra comunità sia riconosciuta‘.

Sono le parole di Félix Díaz, leader della comunità Qom di Potae Napocna Navogoh (La primavera), nella provincia di Formosa, in Argentina. Le ha trasmesse ad Amnesty International, alla vigilia del  9 agosto, Giornata internazionale dei popoli nativi.

Da decenni, i popoli nativi argentini sono trattati come cittadini di seconda classe e vengono sottoposti a violenza, intimidazioni e discriminazione. I loro diritti umani sono ignorati. Negli ultimi mesi, le loro richieste e rivendicazioni hanno iniziato a trovare un po’ di spazio nell’agenda politica e sociale del paese.

Negli ultimi anni, gli interessi pubblici e privati, specialmente quelli legati al settore agrario e quello minerario, hanno eretto enormi barriere tra i popoli nativi argentini e il loro diritto a vivere sulle terre tradizionali. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui popoli nativi ha criticato la mancanza di consultazioni con le comunità che possono essere colpite da progetti di sviluppo e di sfruttamento delle risorse naturali.

Ma non è solo la questione della contesa sui terreni a creare problemi. L’ampia discriminazione esistente nei loro confronti fa sì che la voce dei popoli nativi non venga ascoltata.

Il 23 novembre 2010, la comunità de La primavera ha avviato il blocco della strada nazionale 86. La protesta, nata contro la costruzione di un’università statale su terre considerate ancestrali, è durata quattro mesi fino a quando la polizia non ha usato le armi per togliere il blocco. Un manifestante e un poliziotto sono stati uccisi, molte altre persone sono rimaste ferite e diverse case sono state date alle fiamme.

Questo episodio ha spinto la Commissione interamericana sui diritti umani a emettere misure precauzionali per chiedere allo stato argentino di porre fine alle violenze. Purtroppo, molte delle violazioni accadute all’epoca non sono state adeguatamente indagate.

Quest’anno, a luglio, si è aperto uno spiraglio di speranza. La Corte suprema ha ordinato alle autorità locali e all’Istituto nazionale per le questioni indigene di presentare un piano d’azione per censire il territorio reclamato dalla comunità Qom e garantire il loro diritto a partecipare e a essere consultata nel processo.

Si tratta di un passo nella giusta direzione verso il riconoscimento dei diritti sulla terra della comunità.

Le altre comunità, invece, continuano a resistere a violenza e aggressioni.

Il 12 ottobre 2008 Javier Chocobar, un membro della comunità Pueblo Diaguita della provincia di Tucumán, è stato ucciso mentre cercava di impedire l’espulsione della sua gente da parte di un proprietario terriero. Per la sua morte sono state incriminate tre persone, ma il processo non è ancora partito.

L’assenza di protezione per la comunità Nogalito (Pueblo Lule) di Tucumán è evidente. Nel novembre 2012 parecchi membri della comunità sono stati aggrediti e minacciati di morte da persone che cercavano di prendere il controllo delle loro terre. Questi episodi hanno spinto la Commissione interamericana sui diritti umani a emanare misure precauzionali per chiedere di garantire la vita e l’incolumità fisica dei membri di Nogalito. Nel giugno di quest’anno, purtroppo, con un’altra azione intimidatoria la casa comunitaria è stata incendiata.

Alla base di molti di questi conflitti c’è il problema dell’assenza dei titoli legali di proprietà sulle terre ancestrali.
La Costituzione argentina e il diritto internazionale dei diritti umani riconoscono i diritti dei popoli nativi alle loro terre ancestrali. Nel 2006 il Congresso nazionale ha approvato una legge che ordinava la sospensione di tutti gli sgomberi dei popoli nativi fino a quando le terre ancestrali non fossero state censite, ma non ha definito un criterio di assegnazione dei titoli di proprietà.

A otto anni di distanza, gli sgomberi proseguono. I censimenti delle terre sono in ritardo nella maggior parte dei casi.
Nonostante le enormi sfide e violenze cui vanno incontro, i popoli indigeni argentini non rinunciano a reclamare i loro diritti sulle terre ancestrali.

‘La terra è la nostra vita‘ – dice Félix Díaz. ‘Da essa otteniamo il cibo e le medicine di cui abbiamo bisogno. Ci da le risorse naturali per fare le nostre case, per avere i nostri beni di sostentamento. Senza la terra, noi popoli nativi perderemo le nostre radici spirituali‘.