Sudan, crimini di guerra nello stato del Nilo Azzurro

9 Giugno 2013

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In un rapporto reso pubblico l’11 giugno 2013, Amnesty International ha accusato il governo sudanese di aver commesso crimini di guerra nello stato del Nilo Azzurro, soprattutto nell’area delle colline di Ingessana, caposaldo dei ribelli dell’Esercito popolare di liberazione del Sudan – Nord (Spla-N).

Il rapporto si basa su immagini satellitari e sulle testimonianze dei sopravvissuti ai bombardamenti e agli incendi dei villaggi.

Dopo l’indipendenza del Sud Sudan, nel luglio 2011, e la trasformazione dell’ex gruppo di guerriglieri dell’Spla nell’esercito del nuovo stato, il conflitto è esploso nei due stati confinanti col Sud Sudan: il Sud Kordofan e il Nilo Azzurro. Qui ha iniziato a operare l’Spla-N e qui l’esercito regolare sudanese e le sue milizie associate hanno introdotto la strategia militare della terra bruciata già adottata lo scorso decennio nel Darfur.

Dall’inizio del 2012 le offensive terrestri e dal cielo non si sono contate. Amnesty International ha verificato la distruzione di otto villaggi dell’area di Ingessana, ma secondo altre fonti quelli rasi al suolo sarebbero almeno 17.

Chi è fisicamente in grado di farcela, lascia i villaggi, spesso dopo aver preso la dolorosa decisione di lasciarsi alle spalle gli anziani, i disabili e gli infermi.  Questi ultimi muoiono bruciati nelle loro case, non prima che queste siano state razziate dalle milizie, che portano via tutto, bestiame compreso.

Awadallah Hassan è fuggito da Qabanit, uno degli otto villaggi distrutti. Ha raccontato ad Amnesty International:

Mia nonna Weret era cieca e non poteva scappare. Quando siamo fuggiti, abbiamo sperato che qualcuno l’avesse presa con sé. Quando ci siamo accorti che non era con noi, siamo tornati indietro a prenderla. Era morta, il suo corpo completamente carbonizzato‘.

Oltre ai crimini di guerra che hanno provocato innumerevoli morti e feriti, altrettanti rischiano di farne la fame e le malattie.  A causa del pericolo di essere attaccati, gli abitanti dei villaggi non si avventurano a seminare e poi a raccogliere. Alcuni di loro hanno raccontato ad Amnesty International di essersi nutriti con radici velenose che devono rimanere nell’acqua per giorni prima di diventare commestibili.

Il governo sudanese non consente l’ingresso degli aiuti e dei soccorsi umanitari nelle aree controllate dai ribelli.