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In un momento in cui, in relazione alla situazione nella Striscia di Gaza, la parola genocidio torna tragicamente di attualità e inizia a essere pronunciata non solo dalle organizzazioni che si occupano di diritti umani, comprese quelle israeliane, è necessario ricordare che il 3 agosto del 2014 iniziò, ad opera del gruppo armato proclamatosi Stato islamico, il genocidio degli “infedeli” o “adoratori del diavolo”: ossia, del popolo yazida.
Nel periodo di massima espansione del “Califfato”, il gruppo armato fece irruzione nella regione del Sinjar, nell’Iraq nord-occidentale: villaggi rasi al suolo, migliaia di uomini uccisi e migliaia di donne (bambine in tenera età, ragazze e adulte) rapite e trasferite nel nord-est della Siria.
Di queste donne, sottoposte a schiavitù sessuale e a stupri anche di gruppo, messe all’asta, vendute e ricomprate come a una fiera del bestiame, costrette a soddisfare i più perversi desideri dei loro aguzzini, circa 3000 sono state liberate dai curdi o dietro pagamento di un riscatto.
L’ultima – lo racconta su “Avvenire” Sara Lucaroni, unica a aver seguito il genocidio yazida e i successivi 11 anni – si chiama Reham: rapita a nove anni, ora ne ha 20. Con lei sono state rapite e distrutte la sua infanzia e la sua innocenza.
Speriamo non tocchi anche a lei condividere l’esperienza di molte altre sopravvissute al genocidio: un’esistenza grama, avvolta dal trauma e dall’abbandono, anche da parte dalle loro stesse famiglie, un’esistenza che trascorrono in campi profughi nel Kurdistan iracheno.
Ne mancano all’appello almeno 2000. Non poche donne rapite dallo Stato islamico sono detenute nella regione autonoma curda della Siria, in un enorme centro di detenzione nel quale si trovano anche alcuni dei loro sequestratori.
Mentre per il genocidio di Israele contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza una sentenza dev’essere ancora emessa, per quello del popolo yazida una sentenza c’è stata ed è stata storica.
Esercitando il principio della giurisdizione universale – che consente alle autorità giudiziarie di uno stato di celebrare processi per presunti crimini avvenuti fuori dal suo territorio, in favore di vittime che non ne sono cittadine e nei confronti di imputati che non ne sono cittadini purché presenti su quel territorio – il 30 novembre 2021 l’Alta corte di Francoforte, in Germania, ha condannato all’ergastolo un affiliato allo Stato islamico, Taha al-Jumailly, per aver comprato, ridotto in schiavitù sessuale, torturato e lasciato morire di sete una bambina di cinque anni, Rania, abbandonandola per ore sotto al sole con una temperatura di 50 gradi.
*Questo post è apparso sul blog Le persone e la dignità/Corriere della sera.