Siria: dieci anni dal genocidio del popolo yazida

2 Agosto 2024

Colin Foo - Amnesty International

Tempo di lettura stimato: 13'

Alla vigilia del decimo anniversario del genocidio del popolo yazida, Amnesty International ha denunciato che migliaia di yazidi e yazide sopravvissuti alle atrocità commesse dal gruppo armato Stato islamico risultano ancora scomparsi. Centinaia di essi sono probabilmente detenuti a tempo indeterminato nel nordest della Siria.

Nell’agosto 2014 lo Stato islamico attaccò il popolo yazida nel nord dell’Iraq. Le Nazioni Unite hanno riconosciuto quelle azioni come genocidio. Oltre 3000 uomini, donne, bambini e bambine furono uccisi e almeno 6800 persone, soprattutto donne, bambini e bambine, vennero rapite. Lo Stato islamico si rese responsabile di una lunga serie di violazioni dei diritti umani, sottoponendo le donne e le bambine a schiavitù sessuale e di altra natura e costringendo i bambini a combattere.

Lo Stato islamico venne sconfitto nel marzo 2019. Da allora, l’Ufficio per le persone yazide scomparse, che ha sede a Dohuk, stima che manchino all’appello 2600 persone. Si ritiene che parte di loro si trovi nel nordest della Siria, rapite e lì trasferite dallo Stato islamico.

Amnesty International ha intervistato organizzazioni per i diritti umani yazide e attivisti yazidi. A loro giudizio, un notevole numero di yazide e yazidi è trattenuto nell’ampio sistema di detenzione istituito nel nordest della Siria per imprigionare persone sospettate di essere affiliate allo Stato islamico. Tale sistema è diretto dall’Amministrazione autonoma della regione settentrionale e orientale (d’ora in avanti autorità autonome), col sostegno della coalizione militare guidata dagli Usa, istituita per sconfiggere lo Stato islamico.

“La comunità yazida ha subito danni inimmaginabili ad opera dello Stato islamico. Dieci anni dopo, la loro sofferenza perdura ancora oggi, dato che migliaia di yazidi e yazide risultano scomparsi”, ha dichiarato Lauren Aarons, alta consulente di Amnesty International su genere, conflitti e giustizia internazionale.

“Molti di loro sono stati erroneamente arrestati dopo la sconfitta dello Stato islamico e sono detenuti a tempo indeterminato nel nordest della Siria, in condizioni agghiaccianti e che mettono a rischio la loro vita. Queste persone devono essere individuate e rimesse in libertà e devono ricevere il sostegno di cui hanno bisogno”, ha aggiunto Aarons.

Centinaia di donne, bambine e bambini ormai cresciuti si ritiene siano ancora nel campo di detenzione di al-Hol, tuttora sottoposti a condizioni di prigionia, schiavitù e altre forme di violenza da parte di affiliati allo Stato islamico. Un numero imprecisato di ragazzi e bambini yazidi sarebbe detenuto in un sistema di almeno altri 27 centri di detenzione.

Le persone yazide che, dall’interno di al-Hol, si sono fatte avanti identificandosi come tali sono state liberate e rimpatriate in Iraq. Tuttavia, secondo le organizzazioni yazide per i diritti umani e alcune persone recentemente tornate in Iraq, ci sono persone che non si sono identificate e rimangono pertanto in stato di detenzione: c’è chi teme che, al ritorno, sarà punito o ucciso da parenti delle persone affiliate allo Stato islamico che si trovano ad al-Hol; ad altre è stato detto che saranno le loro famiglie a punirle o che in Iraq non ci sono più sopravvissuti yazidi; altre ancora sono state rapite quando erano così giovani da non ricordare più la loro origine yazida.

Amnesty International ha intervistato quattro donne e ragazze recentemente identificate nei centri di detenzione del nordest della Siria, cinque familiari e 13 tra attivisti ed esponenti di organizzazioni yazide per i diritti umani.

Amnesty International ha avuto colloqui anche con tre esponenti delle autorità autonome e con 12 rappresentanti di agenzie delle Nazioni Unite e gruppi per l’aiuto umanitario. Le interviste sono state fatte, tanto sul terreno in Siria e in Iraq quanto da remoto, tra settembre 2022 e luglio 2024.

“Mi trattavano come una schiava”

La situazione ad al-Hol costituisce un trattamento crudele, inumano e degradante. Le persone sono detenute a tempo indeterminato, senza accusa né processo, nella gran parte dei casi da oltre cinque anni, in violazione del diritto internazionale. Le autorità autonome hanno dichiarato ad Amnesty International di non essere in pieno controllo del centro di detenzione e che lo Stato islamico ha formato un nuovo gruppo al suo interno.

Nahla*, una bambina yazida rimpatriata in Iraq, ha raccontato di essere stata portata ad al-Hol insieme ai familiari dell’ultimo suo rapitore. La famiglia era affiliata allo Stato islamico.

“La famiglia con cui vivevo ad al-Hol mi chiedeva di occuparmi dei loro animali. Mi trattavano come una schiava”.

Nufa*, la madre di Nahla, ha dichiarato che la ricerca della figlia è stata difficile e che quest’ultima aveva difficoltà per identificarsi come yazida:

“Non riusciva a ricordare se fosse yazida o no. Ha dimenticato la maggior parte delle cose”.

Sana*, che aveva 16 anni quando venne rapita dallo Stato islamico, è stata rimpatriata da al-Hol dopo essere stata identificata dalle autorità autonome durante un’operazione di sicurezza. Ha raccontato ad Amnesty International di aver celato la sua identità yazida per anni prima che lo Stato islamico venisse sconfitto: uno dei suoi rapitori le aveva mostrato le immagini di quello che aveva definito il delitto d’onore di una bambina yazida tornata a casa e le aveva detto che la sua comunità di origine non l’avrebbe mai rivoluta indietro. Temendo di essere uccisa in Iraq, Sana aveva concluso che fosse meglio nascondersi ad al-Hol:

“Volevo farmi avanti ma avevo il terrore che la mia famiglia non mi avrebbe accettato. Strappavo la mia tenda, la rimuovevo spesso, mi spostavo in continuazione, non volevo fare conoscenza con nessuno e volevo che nessuno mi conoscesse. A volte pensavo che avrei dovuto farmi avanti, poi mi tornavano in mente le immagini di quel video”.

Un ulteriore ostacolo è che molte delle donne e delle ragazze yazide che si trovano ad al-Hol hanno giovani figli, avuti in seguito a violenze sessuali subite da parte dello Stato islamico. Alcune di loro hanno il timore, ben fondato, che, se si identificassero e venissero rimpatriate verrebbero separate dai loro figli, in violazione del diritto internazionale.

Nel 2020 Amnesty International aveva denunciato casi di madri separate dai loro figli dopo l’identificazione ad al-Hol. Il rischio permane ancora.

Hanifa Abbas ha riferito ad Amnesty International di aver trascorso anni alla ricerca delle sue cinque sorelle rapite dallo Stato islamico. È riuscita a riportarne a casa quattro e ha scoperto, da una serie di fotografie fornitele da attiviste yazida, che la quinta si trova ad al-Hol. Quest’ultima sorella, tuttavia, non si è mai identificata con la direzione del campo come yazida.

Hanifa pensa che sua sorella possa avere dei figli e che, se si identificasse come yazida e venisse scarcerata, potrebbe venir separata da loro:

“Tantissime donne, se solo avessero saputo di avere la possibilità di stare coi loro figli, si sarebbero fatte avanti”, ha commentato.

“Sono molto forte ma sento di non farcela più. Sono dieci anni… Dovete salvare le donne che sono ancora detenute”, questo è il suo appello alla comunità internazionale.

Amani*, una donna yazida tornata in Iraq da al-Hol, ha raccontato ad Amnesty International di essere stata costretta a separarsi dai suoi figli, che ora vivono nel nordest della Siria:

“Tutti sanno che sono i figli dello Stato islamico. Ho alcuni loro vestiti, li prendo in mano e li annuso. Certo che vorrei stare con loro. Sono parte del mio cuore”.

“Nessuno si è mai fatto vivo per chiedermi se fossi yazida”

Amnesty International ha documentato torture e maltrattamenti sistematici nei centri di detenzione del nordest della Siria e ha verificato che, in almeno due di queste strutture, centinaia di uomini e di ragazzi sono morti a seguito di tortura o a causa delle assai inumane condizioni di prigionia.

Basim*, detenuto in una struttura chiamata “Panorama”, si è identificato come yazida nel 2022. Ora ha 18 anni ed è in Iraq. Durante il periodo trascorso al “Panorama”, ha visto decine di uomini morire a seguito di maltrattamenti o torture e di epidemie.

“Sono sicuro al 100 per cento che nelle prigioni [del nordest della Siria] ci siano altri uomini e ragazzi. Hanno timore di parlare, perché gli altri prigionieri potrebbero fargli del male. Per quanto riguarda me, nessuno [della direzione dei centri di detenzione] si è mai fatto vivo per chiedermi se fossi yazida. Se l’avessero fatto, sarei andato via dopo un minuto. Ora occorre rintracciare gli altri yazidi, c’è ancora tempo per salvarli”, ha raccontato Basim.

La mancanza di un sistema d’identificazione

I gruppi e gli attivisti yazidi per i diritti umani collaborano con le autorità autonome per identificare le persone yazide ancora detenute nel nordest della Siria, facendo da coordinamento tra le famiglie e le forze di sicurezza e in alcuni casi raccogliendo informazioni dall’interno di al-Hol.

Secondo molti di loro, le relazioni con le autorità autonome sono buone sebbene basate su contatti personali. Non c’è, tuttavia, alcun sistema organizzato per affrontare il tema delle persone yazide scomparse.

Abdullah Shrem, un attivista yazida che da 10 anni cerca d’identificare le persone yazide scomparse, ha dichiarato ad Amnesty International:

“Lo Stato islamico è finito ma le persone ancora sotto rapimento sono tante. Ci sentiamo completamente ignorati dalla comunità internazionale”.

Un altro attivista yazida ha riferito di avere i nomi di nove ragazzi e bambini yazidi che ritiene si trovino nel “Panorama” ma che non c’è modo di dialogare con le autorità per ottenerne il ritorno in libertà.

Gli attivisti e le famiglie della comunità yazida non devono essere lasciati soli nella ricerca delle persone yazide scomparse. C’è urgente bisogno di un aumento del sostegno internazionale per identificarle e farle tornare a casa, comprese quelle abbandonate e dimenticate nei centri di detenzione e ad al-Hol”, ha dichiarato Nicolette Waldman, Alta consulente di Amnesty International sulle crisi.

“I diritti umani e il benessere delle persone sopravvissute devono essere al centro di questi sforzi. Le autoritàrachene devono fornire più assistenza e sostegno alle persone yazide rimpatriate, comp ireso l’accesso alle forme di riparazione previste dalla Legge sulle persone sopravvissute yazide [in vigore in Iraq]”, ha proseguito Waldman.

Le autorità autonome devono assicurare che le organizzazioni yazide per i diritti umani e altri gruppi che hanno i diritti umani al centro del loro operato abbiano accesso alle strutture detentive e ad al-Hol. Quelle irachene devono inoltre consentire l’accesso al campo Jeddah 1, la prima struttura dove vengono portate le persone di nazionalità irachena rimpatriate da al-Hol, e identificare tra queste le persone yazide.

Altri stati, soprattutto gli Usa e il Regno Unito, devono fornire sostegno a tutte le iniziative per identificare le persone yazide scomparse che onorino i diritti umani e il benessere di queste ultime. Le agenzie delle Nazioni Unite, come Unicef, UN Women e l’Alto commissariato per i rifugiati dovrebbero raddoppiare i loro sforzi in questo senso. Anche i donatori dovrebbero prendere in considerazione il finanziamento di programmi di accesso ai test del Dna per identificare le persone yazide o appartenenti ad altre comunità minoritarie che sono state rapite quando erano piccole.

*I nomi sono stati cambiati