Visita in Italia di Gheddafi: l’Italia deve inserire i diritti umani nell’agenda dei colloqui

29 Agosto 2010

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In occasione della visita in Italia del leader libico Mu’ammar Gheddafi, la Sezione Italiana di Amnesty International ha scritto una lettera al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nella quale si chiede all’Italia di inserire il tema dei diritti umani nell’agenda degli incontri in programma e, più in generale, al centro delle relazioni bilaterali e della cooperazione tra Italia e Libia.

Il dialogo tra i due paesi, culminato nell’accordo di Amicizia, partenariato e cooperazione di cui ricorre oggi il secondo anniversario, ha riguardato tra le altre cose il contrasto dell’immigrazione irregolare attraverso attività congiunte di pattugliamento del mar Mediterraneo e il trasferimento di fondi e di mezzi da parte dell’Italia, dimenticando la spaventosa situazione dei diritti umani in Libia. 

Nel giugno di quest’anno, Amnesty International ha diffuso un rapporto nel quale sottolinea come la situazione dei diritti umani in Libia risenta dell’assenza di riforme, nonostante il paese intenda giocare un ruolo di maggior rilievo sul piano internazionale. Il rapporto, basato anche su una missione di ricerca sul campo del 2009 e aggiornato fino alla metà del maggio 2010, denuncia una serie di violazioni dei diritti umani, tra cui la tortura, la fustigazione delle donne e la pena di morte.

Secondo quanto emerso dalle ricerche di Amnesty International, molti detenuti hanno firmato ‘confessioni’ in seguito a tortura e ad altri maltrattamenti compiuti da forze di polizia, utilizzate poi nei processi che li riguardano. Negli ultimi anni, Amnesty International ha documentato come i metodi più utilizzati siano le bastonate, tra cui quelle sulle piante dei piedi (falaqa), le scariche elettriche, la sospensione per le braccia e il diniego deliberato di assistenza medica. Le autorità libiche dovrebbero impegnarsi in maniera efficace affinché queste pratiche non siano più tollerate e avviare indagini sui casi denunciati e sulle persone responsabili, compresi i funzionari dell’Agenzia per la sicurezza interna.

In Libia, sono inoltre previste punizioni corporali, inclusa la fustigazione, per persone condannate a causa di relazioni sessuali al di fuori di un matrimonio legale, in base alla legge n. 70 del 1973 che prevede fino a 100 frustate. Il codice penale contempla anche sino a sette anni di carcere per relazioni sessuali extraconiugali. Tali previsioni sono discriminatorie e colpiscono in maniera sproporzionata le donne. Le autorità libiche dovrebbero porre fine all’applicazione di punizioni corporali e depenalizzare le relazioni sessuali tra adulti consenzienti. Amnesty International ritiene che gli uomini e le donne arrestati con queste motivazioni siano da considerare prigionieri di coscienza e ne chiede l’immediato e incondizionato rilascio.

Infine, la pena di morte (tema sul quale l’Italia ha negli ultimi anni assunto un ruolo internazionale di grande stimolo verso la moratoria sulle esecuzioni e in vista dell’abolizione globale) è prevista in Libia per un numero di reati ampio, che include anche l’esercizio pacifico del diritto alla libertà di espressione e di associazione. Le sentenze capitali continuano a essere comminate dai tribunali libici al termine di processi che violano gli standard internazionali sull’equo processo e colpiscono in maniera sproporzionata cittadini stranieri.

Nella lettera al presidente Berlusconi, Amnesty International rileva come i partner internazionali della Libia debbano porre la grave situazione dei diritti umani al centro del dialogo con le autorità di questo paese. Come membro della comunità internazionale, la Libia ha infatti la responsabilità di rispettare gli obblighi in materia di diritti umani e occuparsi delle violazioni senza nasconderle. Questo consentirebbe di superare contraddizioni quali il far parte del Consiglio Onu dei diritti umani e, contemporaneamente, rifiutare le visite dei suoi esperti indipendenti.

L’Italia, in particolare, sottolinea Amnesty International, potrebbe assumere un ruolo guida nel dialogo sui diritti umani e impegnarsi in questo senso a partire dagli incontri in agenda nel corso della visita del leader libico Gheddafi e, successivamente, in vista della Revisione universale periodica, nell’ambito del Consiglio Onu dei diritti umani, che a novembre riguarderà anche la Libia.

Ulteriori informazioni

Il rapporto di Amnesty International ”La Libia di domani’: quale speranza per i diritti umani?’, pubblicato il 23 giugno 2010,  include riferimenti alla difficile situazione di migranti, richiedenti asilo e rifugiati in Libia, paese che non è parte della Convenzione sui rifugiati del 1951, non ha una procedura di asilo e non riconosce ufficialmente la presenza dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), circostanze che ostacolano la protezione internazionale dei richiedenti asilo.

Le politiche di immigrazione e asilo sono da tempo al centro del dialogo tra Italia e Libia, che da parte italiana si è giovato negli ultimi 10 anni della mediazione, tra gli altri, degli onorevoli D’Alema, Pisanu e Maroni, nei loro ruoli istituzionali di ministri. Un passaggio fondamentale del dialogo Italia – Libia è costituito dagli accordi tecnici conclusi nel dicembre 2007 dall’allora ministro dell’Interno Amato, i quali dispongono il pattugliamento marittimo congiunto da parte di un nucleo operativo italo-libico, dichiaratamente a comando libico, per mezzo di navi della Guardia di Finanza fornite dall’Italia.

La cooperazione così costruita è sfociata nell’accordo di Amicizia, partenariato e cooperazione, firmato dal presidente del Consiglio Berlusconi e dal leader libico Gheddafi a Tripoli il 30 agosto 2008 e velocemente ratificato a larghissima maggioranza dal parlamento italiano a febbraio 2009. Questo trattato non dedica spazio alla tutela concreta dei diritti umani e costruisce le premesse politiche della cooperazione in materia di immigrazione.

Sulla base degli accordi, l’Italia ha fornito alla Libia sei motovedette della Guardia di Finanza, consegnate a maggio 2009 e a febbraio 2010.

A partire dal maggio 2009, le autorità italiane e libiche hanno trasferito in Libia diverse centinaia di migranti e richiedenti asilo intercettati in mare mentre tentavano di raggiungere l’Italia. Secondo dichiarazioni ufficiali dell’Ambasciatore italiano in Libia, tra maggio e settembre 2009 oltre 1000 persone sono state trasferite nel paese sulla base degli accordi. Lo stesso governo italiano ha comunicato al Comitato europeo contro la tortura che tra le persone ‘riconsegnate’ alla Libia vi erano decine di donne, almeno una delle quali in stato di gravidanza, e diversi minori. 

Il 17 luglio scorso si è avuta un’ulteriore conferma dell’impatto degli accordi Italia – Libia sui diritti umani di migranti e rifugiati. Secondo le denunce ricevute da Amnesty International, un’imbarcazione donata dalle autorità italiane a quelle libiche risulterebbe coinvolta in una ‘azione di salvataggio’ di 55 cittadini somali in viaggio dalla Libia verso l’Italia, che si trovavano in pericolo in mare a 45 chilometri da Malta. Le autorità libiche hanno ricondotto in Libia 27 persone tra cui almeno quattro donne. Secondo le informazioni disponibili, coloro che sono stati fatti salire a bordo dell’imbarcazione avevano avuto l’impressione di essere condotti in Italia perché ci si rivolgeva loro in italiano. Quando il resto del gruppo ha sentito parlare arabo ha avuto il sospetto che l’imbarcazione fosse a comando libico e si è rifiutato di salire. Questi ultimi sono stati successivamente presi a bordo da un’imbarcazione militare maltese e condotti a Malta, dove si trovano attualmente detenuti e stanno affrontando le interviste relative alla procedura d’asilo. Secondo le informazioni disponibili i 27 somali rinviati in Libia durante il viaggio sono stati ammanettati e non hanno avuto accesso a cibo e acqua. Sono stati detenuti per diversi giorni prima di essere rilasciati e muniti di permesso di soggiorno valido tre mesi. 

 

Scarica il rapporto in inglese ‘La Libia di domani: quale speranza per i diritti umani?’

 

FINE DEL COMUNICATO                                                                               Roma, 30 agosto 2010

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