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A dieci anni dalla rivoluzione tunisina, che aveva dato il via a un’ondata di rivolte in tutto in Medio Oriente e l’Africa del Nord, Amnesty International ha denunciato in una approfondita dichiarazione che le vittime delle gravi violazioni dei diritti umani avvenute durante la rivoluzione nel periodo compreso tra il 17 dicembre del 2010 e il 14 gennaio del 2011 ancora stanno lottando per ottenere giustizia e riparazione.
I governi tunisini che si sono succeduti non sono riusciti a mettere al primo posto l’accertamento delle responsabilità delle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza. L’impunità del passato nei confronti di atti di tortura e altri maltrattamenti o dell’uso eccessivo della forza ha contribuito a un ciclo di violazioni che non è ancora finito.
Da maggio 2018, almeno 10 processi per la repressione violenta della rivoluzione hanno preso avvio presso le Camere penali speciali, istituite dalla legge sulla giustizia di transizione per occuparsi dei reati del passato, ma non è stata emessa ancora alcuna sentenza. I funzionari del ministero dell’Interno attuale e passato si sono rifiutati di rispondere ai mandati di comparizione del tribunale.
“Questi processi potrebbero costituire l’ultima possibilità che i responsabili rispondano dei reati commessi e sia fatta giustizia per le vittime e i loro familiari, ma sono stati gravemente danneggiati dall’impedimento costante posto in atto dal settore sicurezza. Gli agenti hanno ignorato le convocazioni e gli ordini del tribunale, con il sostegno dei sindacati che hanno chiesto il boicottaggio dei procedimenti”, ha dichiarato Amna Guellali, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.
“Gli agenti, o gli ex agenti, del ministero degli Interni accusati di uccisioni arbitrarie di manifestanti e di altre violazioni dei diritti umani commesse durante la rivoluzione sfidano il sistema giudiziario non presentandosi alle udienze, a riprova del senso di impunità di cui si continua a godere in Tunisia oggi”, ha proseguito Amna Guellali.
La creazione dei meccanismi di giustizia di transizione resterà una delle più importanti eredità della rivoluzione tunisina. Amnesty International chiede alle autorità tunisine di sostenere il processo assicurando i presunti autori dei crimini alla giustizia e di offrire delle garanzie affinché ci sia un procedimento accurato per chi è accusato di queste uccisioni e di altre gravi violazioni nei confronti di manifestanti pacifici.
Durante la rivoluzione tunisina, le forze di sicurezza hanno ucciso 132 dimostranti e ne hanno feriti 4000, secondo la Commissione nazionale di indagine sugli abusi e sulle violazioni avvenute durante la rivoluzione. All’indomani della rivoluzione, è stata adottata una legge sulla giustizia di transizione che istituiva la Ivd, Commissione per la verità e la dignità. La Ivd ha iniziato il suo lavoro nel 2016, raccogliendo le testimonianze di migliaia di vittime e testimoni. Due anni dopo ha trasmesso 12 casi di rinvio a giudizio ai tribunali specializzati, dando vita a 10 processi.
Negli ultimi due anni sono state almeno 23 le udienze innanzi alle Camere penali speciali in vari tribunali, tra cui Tunisi, Le Kef e Sidi Bouzid. Decine di vittime e testimoni hanno deposto in tribunale, spesso in assenza dell’imputato. Tuttavia, nessun procedimento ha raggiunto ad oggi la fase dibattimentale e non è stata emessa neanche una sentenza.
Marwen Jamli, uno dei manifestanti ucciso a Thala l’8 gennaio 2011, aveva 19 anni. Suo padre, Kamel Jamli, ha riferito ad Amnesty International che si è recato per anni insieme ai suoi familiari al tribunale militare di Le Kef, poi di Tunisi e adesso di Kasserine, nella speranza di ottenere giustizia:
“I nostri figli non sono morti per nulla; adesso, è nostro dovere combattere per la giustizia, in modo che nessun altro debba patire le nostre sofferenze. Hanno sacrificato le loro vite, anche noi faremo i sacrifici necessari… Adesso, continueremo ad andare a Kasserine, non importa quanto ci stancheremo o invecchieremo. Sappiamo chi ha ucciso i nostri figli a Thala, sappiamo che queste persone sono ancora in servizio ed è una cosa con la quale dobbiamo convivere ogni giorno, fino a quando non sarà fatta giustizia. Devono almeno confessare, dire la verità su quello che hanno fatto e mostrarsi pentiti”.
Mimoun Khadhraoui, il cui fratello, Abdel Basset Khadhraoui, è stato ucciso con un colpo di arma da fuoco dalla polizia nelle strade di Tunisi il 13 gennaio 2011, ha detto che insieme alla sua famiglia non avrebbe mai smesso di cercare la verità.
“…le persone che credono maggiormente nel processo di giustizia di transizione sono i familiari dei martiri della rivoluzione. La prova è che siamo ancora qui, 10 anni dopo. Siamo stanchi e frustrati, ma non ci arrenderemo. È una questione che va oltre il nostro diritto alla giustizia o il caso di mio fratello, si tratta del diritto del popolo tunisino alla verità e alla giustizia”.
La Tunisia ha l’obbligo, in base a quanto stabilito dal diritto internazionale, di garantire il diritto a un rimedio effettivo per le vittime delle violazioni dei diritti umani. Questo include il diritto alla verità, attraverso la rivelazione dei fatti; alla giustizia, attraverso indagini sulle violazioni avvenute nel passato e l’azione penale nei confronti dei presunti autori; e alla riparazione, completa e valida per le vittime e i loro familiari, nelle sue cinque forme: restituzione, indennizzo, riabilitazione, soddisfazione e garanzie di non ripetizione.
“Con il rischio di rotazioni giudiziarie che possono ulteriormente ostacolare gli attuali processi, l’Alto consiglio di giustizia deve garantire che i giudici delle camera penali speciali siano messi nelle condizioni di svolgere il proprio lavoro e che la rotazione annuale dei giudici non abbia un effetto negativo sui processi in corso o causi ritardi indebiti”, ha concluso Amna Guellali.