Arabia Saudita: impennata delle esecuzioni di stranieri per droga

7 Luglio 2025

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In un rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha denunciato l’allarmante aumento delle condanne a morte eseguite in Arabia Saudita negli ultimi anni, soprattutto per reati di droga e in particolare nei confronti di cittadini stranieri.

Tra gennaio 2014 e giugno 2025, secondo l’agenzia di stampa ufficiale, sono state messe a morte 1816 persone, quasi una su tre per reati di droga che secondo le norme e gli standard internazionali non possono essere puniti con la pena capitale. Delle 597 esecuzioni per reati di droga del decennio, quasi tre quarti (75 per cento) hanno riguardato cittadini stranieri.

Nel 2024 le esecuzioni in Arabia Saudita sono state complessivamente 345; nei primi sei mesi del 2025 sono state 180. Solo nel mese di giugno, sono state messe a morte 46 persone, 37 delle quali per reati di droga.

“Il continuo e spietato uso della pena di morte da parte delle autorità saudite al termine di processi gravemente iniqui non solo mostra un agghiacciante disprezzo per la vita umana ma, per quanto riguarda la sua applicazione per reati di droga, costituisce anche una clamorosa violazione delle norme e degli standard internazionali”, ha dichiarato Kristine Beckerie, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

“Stiamo assistendo a una tendenza orribile: cittadini stranieri vengono messi a morte a livelli allarmanti per reati che non dovrebbero mai essere puniti con la pena di morte. Il nostro rapporto svela la tetra e mortale realtà che si cela dietro l’immagine progressista che le autorità saudite cercano di promuovere a livello globale”, ha aggiunto Beckerie.

Il numero di 345 esecuzioni del 2024 è il più alto mai registrato da Amnesty International da oltre 30 anni. Circa il 35 per cento, 122, hanno riguardato reati di droga e questo è il dato più alto mai verificato dal 1990, quando l’organizzazione per i diritti umani ha iniziato a tenere i conti delle esecuzioni in Arabia Saudita. Nel 2024 l’Arabia Saudita è stato uno dei quattro stati al mondo in cui sono state eseguite condanne a morte per reati di droga.

Lo spaventoso aumento delle esecuzioni negli ultimi anni è dovuto all’annullamento dalla moratoria sull’uso della pena di morte per reati di droga, durato dal gennaio 2021 al novembre 2022. Da allora, l’Arabia Saudita ha eseguito 262 condanne a morte per reati di droga, quasi la metà del totale registrato negli ultimi dieci anni.

In netto contrasto con precedenti dichiarazioni del principe della Corona Mohamed bin Salman, secondo il quale il regno stava limitando l’uso della pena di morte per i reati ta’zir (per i quali non è obbligatoria ma a discrezione del giudice), il rapporto di Amnesty International dimostra che i giudici ricorrono al proprio potere discrezionale per imporre, anziché evitare, le condanne a morte anche per reati diversi dall’omicidio volontario. Nel 2024 sono state eseguite 122 condanne a morte per reati ta’zir, nei primi sei mesi del 2025 sono state già 118.

Le nazionalità più colpite dall’ondata di esecuzioni di cittadini stranieri nell’ultimo decennio sono state la pachistana (155 esecuzioni), la siriana (66), la giordana (50), la yemenita (39), l’egiziana (33), la nigeriana (32), la somala (22) e l’etiope (13). Decine di altri cittadini stranieri sono in pericolo di esecuzione imminente.

I cittadini stranieri non sono sottoposti a processi equi, in uno stato che non è il loro e il cui sistema giudiziario è inerentemente opaco.

“Non sappiamo se [gli imputati] siano in possesso degli atti giudiziari. Noi non possiamo ottenerli perché non c’è nessuno all’interno dell’Arabia Saudita cui rivolgerci, ad esempio un rappresentante legale. C’è poi la barriera linguistica. Mio fratello è stato arrestato una settimana dopo che, dall’Etiopia, era giunto in Yemen e da qui aveva attraversato il confine saudita. Non sapeva nulla di cosa gli sarebbe potuto succedere”, ha dichiarato il parente di un condannato a morte.

Amnesty International, insieme alla European Saud Organization for human rights e al Justice Project Pakistan ha documentato i casi di 25 cittadini stranieri provenienti da Egitto, Giordania, Pakistan e Somalia condannati a morte per reati di droga e in attesa di esecuzione o già impiccati.

Parlando approfonditamente con 13 familiari dei 25 condannati a morte, esponenti delle comunità di appartenenza e autorità consolari, nonché esaminando gli atti processuali, Amnesty International è giunta alla conclusione che lo scarso livello d’istruzione e le condizioni socio-economiche svantaggiate delle persone in questione hanno aumentato il rischio di essere sfruttate nel percorso migratorio e ha reso più difficile accedere a forme di rappresentanza legale in Arabia Saudita.

Questa, infatti, è del tutto mancata. L’assistenza consolare è stata inadeguata e i servizi d’interpretariato sono risultati inefficaci.

Almeno in quattro dei 25 casi, gli imputati sono stati sottoposti a maltrattamenti e torture durante la detenzione preventiva per estorcere loro “confessioni”. Ad esempio, durante il processo Hussein Abou al-Kheir, 57 anni, padre di otto figli, ha più volte ritrattato quanto confessato, denunciando di essere stato picchiato così duramente da non riuscire a tenere in mano una penna. Ciò nonostante, il giudice ha usato la sua “confessione” come prova per condannarlo a morte. L’esecuzione è avvenuta nel marzo 2023.

Le conseguenze psicologiche per le persone in attesa dell’esecuzione e per le loro famiglie sono immense. In molti casi non è noto a che punto sia il ricorso contro la condanna a morte o quando sarà programmata l’esecuzione. Talora, l’avviso viene dato solo un giorno prima. Vi sono stati casi in cui le famiglie hanno appreso la notizia dell’esecuzione dei propri cari attraverso altri detenuti o articoli di giornale. Le autorità saudite trattengono le salme delle persone messe a morte, negando alle loro famiglie il diritto a commemorarle e a seppellirle secondo i propri riti religiosi: per le Nazioni Unite, è una forma di maltrattamento.

“Una volta tornati in Giordania, eravamo seduti in attesa, in silenzio, in salotto. Quando è arrivata la notizia [dell’esecuzione] abbiamo iniziato a urlare come pazzi. Eravamo devastati, specialmente perché non avevamo un corpo da commemorare, non abbiamo potuto fare alcuna cerimonia funebre”, ha ricordato Zainab Abou al-Kheir, la sorella di Hussein.

Oltre che per i reati di droga, Amnesty International segnala un altrettanto allarmante aumento dell’uso della pena di morte per reati di “terrorismo” nei confronti della minoranza sciita: pur costituendo solo il 10-12 per cento della popolazione totale, tra gennaio 2024 e giugno 2025 sono stati messi a morte per reati di “terrorismo” 120 condannati su 286, il 42 per cento. Si tratta di una repressione politica contro un gruppo discriminato da tempo, i cui dissidenti pacifici vengono spesso processati per “terrorismo”.

Nonostante alcune recenti riforme destinate ufficialmente a limitare l’uso della pena di morte nei confronti di persone minorenni al momento del reato, sette prigionieri – alcuni dei quali avevano 12 anni all’epoca del loro presunto reato – sono in pericolo di esecuzione; quattro di loro sono stati recentemente sottoposti a un nuovo processo, terminato a sua volta con una condanna a morte. L’imposizione della pena capitale nei confronti di persone minorenni al momento del reato è assolutamente vietata dal diritto internazionale, compresa la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, vincolante per l’Arabia Saudita.

“Chiediamo agli stati della comunità internazionale alleati dell’Arabia Saudita di esercitare pressioni urgenti affinché le autorità del regno pongano fine a questa ondata di esecuzioni e rispettino i loro obblighi internazionali”, ha concluso Beckerie.