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Approfondimento a cura di Claudio Guarnieri, ricercatore di Amnesty International esperto di sorveglianza e sicurezza informatica
In Italia, come nel resto del mondo, governi e istituzioni pubbliche e private guardano alla tecnologia come un possibile mezzo per alleviare le restrizioni di mobilità. In questi giorni il dibattito sulla viabilità dell’utilizzo di app di “Contact Tracing” infuria nell’opinione pubblica.
Alcune iniziative internazionali, come DP-3T e CovidWatch, da diverse settimane lavorano a prototipi di app di Contact Tracing basate su Bluetooth, con una particolare attenzione al rispetto della privacy degli utenti.
Da poco, anche i colossi Apple e Google hanno annunciato l’unione delle proprie forze per definire una piattaforma comune per abilitare i rispettivi dispositivi iPhone e Android a supportare lo sviluppo di simili app basate su Bluetooth. In Italia, “Immuni“, la app identificata dal governo e in fase di sviluppo, propone una soluzione analoga anche se con caratteristiche proprie.
Ma queste app sono davvero necessarie?
È una domanda di difficile risposta. L’emergenza Covid-19 non ha precedenti, specialmente nella società iper-tecnologica ed inter-connessa in cui viviamo. La mancanza di verifiche empiriche rendono la digitalizzazione del Contact Tracing un esperimento che forse inevitabilmente dovremo attraversare. Come tale, ci troviamo in un momento in cui dover soppesare la scelta tra concedere a nuove, poco sperimentate, forme di tracciamento di cui non necessariamente siamo in grado di identificarne gli effetti collaterali, e l’urgenza di alleviare l’enorme peso che grava sulla sanità pubblica, l’economia, ed il benessere collettivo.
La necessità, proporzionalità e l’efficacia di strumenti di controllo digitale come questo, che i cittadini sono invitati ad accettare, deve essere verificata e stabilita con chiarezza e trasparenza dalle autorità di competenza. Ci viene chiesto un voto di fiducia che non può essere tradito. Purtroppo, la pressione che Covid-19 esercita sulla società, e l’urgenza dei governi di agire, lasciano poco spazio e tempo ad un dibattito costruttivo, e la distribuzione di app di Contact Tracing è tanto imminente quanto confusionale.
Tuttavia è imperativo che lo sviluppo di queste app e la scelta della loro adozione siano informate non solo dalle necessità e preferenze delle autorità sanitarie, ma anche dalle complicazioni tecniche, implicazioni sociali, e la possibile corrosione dei nostri diritti. Il Comitato Europeo per la Protezione dei Dati ha persino pubblicato giorni fa delle linee guide da osservare nello sviluppo di queste nuove tecnologie. La domanda è: verranno accolte o ignorate dai paesi membri dell’Unione?
Dobbiamo insistere su dei principi.
Innanzitutto, l’uso di app di Contact Tracing deve essere volontario. Una partecipazione obbligatoria a tali sistemi non solo foraggerebbe sospetti e dubbi, ma potrebbe infrangere i diritti alla privacy e alla libertà di associazione di ciascuno di noi. Gli epidemiologi avvertono che solo una percentuale di adozione del 60-70% sarebbe sufficiente. Invece che giustificarne l’obbligatorietà, questo fattore dovrebbe informarci sui limiti concreti di questa tecnologia.
Queste app sono una concessione eccezionale della cittadinanza e la loro operatività deve cessare al termine dell’emergenza Covid-19. In aggiunta, perché questa tecnologia funzioni e per non scoraggiarne l’adozione, al pubblico vanno fornite garanzie che i propri dati raccolti non vengano utilizzati, per esempio, per fini investigativi da parte delle autorità giudiziarie. L’accesso a questi dati deve essere ristretto esclusivamente a finalità di sanità pubblica nel contesto di questa pandemia.
L’utilizzo di queste app deve essere non-discriminatorio. Giornalisti ed organizzazioni di diritti umani e digitali internazionali, come Amnesty International, da lungo documentano come nuove tecnologie – specialmente di sorveglianza – contribuiscono volutamente o meno all’intensificarsi di ineguaglianze sociali. Specialmente alle fasce più marginalizzate della società, deve essere garantito il diritto alla salute e eguale accesso a strutture di diagnostica e trattamento, indipendentemente dalla loro partecipazione a piattaforme di Contact Tracing. Non potersi permettere un costoso smartphone non può comportare un trattamento da paziente di seconda categoria.
Dovendo concedere una nuova forma di tracciamento, accettiamo anche un sacrificio al nostro diritto alla privacy. Per valutarne gli effetti bisogna analizzare il “ciclo di vita” dei nostri dati. Dove vengono generati? Dove vengono salvati? Quali dati vengono trasmessi a terze parti? In quali circostanze? A chi? Sono GDPR e le altre regolamentazioni vigenti rispettate?
Alcune implementazioni, come DP-3T e la proposta di Apple e Google, non solo sfruttano Bluetooth e la crittografia per cercare di salvaguardare l’anonimato degli utenti, ma propongono altresì un modello cosiddetto “decentralizzato”: dove l’analisi e l’identificazione degli utenti a rischio avviene sugli smartphone di ciascun utente. Nonostante le scarse specifiche disponibili al grande pubblico attualmente, da comunicati del Ministro per l’Innovazione tecnologica e digitalizzazione e dalla stampa nazionale, si evince che ad esempio “Immuni” potrebbe preferire una architettura “centralizzata”. Questa opzione sarebbe meno preferibile poiché la correlazione dei dati potrebbe permettere una problematica ricostruzione delle nostre reti sociali.
“Ma non ho nulla da nascondere!“. Non cadiamo in una giustificazione ingannevole: salvaguardare il nostro diritto alla privacy è tanto necessario quanto proteggere, ad esempio, la nostra libertà di pensiero e parola. Così come noi tutti condividiamo questa emergenza, condividiamo altrettanto i nostri diritti fondamentali, e preservarli attraverso questa pandemia ci richiederà determinazione e solidarietà.