Tempo di lettura stimato: 3'
Tsukasa Kanda, 44 anni, è stato impiccato nelle prime ore del 25 giugno nel centro di detenzione di Nagoya. Era stato condannato nel 2009 per furto e omicidio. Si è trattato della prima esecuzione del 2015, la 12esima sotto il governo in carica, al potere dal 2012, ed è avvenuta in un periodo nel quale l’attenzione politica, mediatica e dell’opinione pubblica è concentrata su altri temi, quali i piani del governo per espandere il ruolo militare del Giappone.
‘Dal momento che il paese stava guardando altrove, le autorità giapponesi hanno pensato che fosse politicamente conveniente riprendere adesso le esecuzioni. Privare in tal modo un uomo della vita è una politica da bassifondi‘ – ha riferito Hiroka Shoji, ricercatrice sull’Asia orientale di Amnesty International. ‘Il governo vuole evitare un dibattito completo e franco sul ricorso alla pena di morte perché le argomentazioni che avanza non sono ammissibili‘ – ha proseguito Hiroka.
Le autorità giapponesi continuano a sostenere che la minaccia della pena capitale costituisce un ‘deterrente generale’, ma hanno ammesso che questa tesi non è al momento sostenuta da alcuna evidenza scientifica. Il Giappone è stato uno dei soli 22 paesi a effettuare esecuzioni nel 2014, rispetto ai 41 di 20 anni prima. Attualmente, 140 stati hanno abolito la pena di morte per legge o nella pratica. Il Giappone e gli Usa restano gli unici stati membri del G8 a contemplarla e negli Usa ci sono segnali che il ricorso alle condanne a morte sia in diminuzione.
Nei bracci della morte del Giappone si trovano 129 prigionieri in attesa dell’esecuzione. L’intero procedimento della condanna a morte è coperto dal silenzio e i prigionieri sono informati dell’esecuzione solo poche ore prima, o non ricevono addirittura alcun preavviso. Le loro famiglie ne vengono a conoscenza solo in seguito. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno criticato la mancanza di garanzie giudiziarie per i condannati a morte in Giappone. Agli imputati si negano un’adeguata difesa legale e il pieno ricorso in appello contro la condanna, obbligatorio quando si tratta di pena di morte. Perfino prigionieri con disabilità mentali e psicologiche sono stati messi a morte o restano in attesa dell’esecuzione. Molti condannati hanno raccontato di aver ‘confessato’ il crimine dopo essere stati sottoposti a maltrattamenti e torture durante interrogatori prolungati, senza avvocato, mentre erano in custodia della polizia.