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Alla vigilia dell’inizio dell’anno olimpico, il Giappone ha eseguito la terza condanna a morte dell’anno.
L’uomo impiccato ieri mattina (26 dicembre) all’alba nella prigione di Fukuoka si chiamava Wei Wei ed era un cittadino cinese. Nel 2011 era stato giudicato definitivamente colpevole di un crimine particolarmente abietto: l’uccisione di una famiglia di quattro persone, durante una rapina avvenuta nel 2003.
Due complici di Wei erano riusciti a rientrare in Cina. Uno di loro è stato messo a morte, l’altro è stato condannato all’ergastolo.
Il record di esecuzioni del governo del primo ministro Shinzo Abe, in carica dal 2012, è ora salito a 39 mentre quella di Wei è stata la prima esecuzione sotto la nuova ministra della Giustizia, Masako Mori.
La pena di morte in Giappone è circondata dal segreto e raggiunge rari picchi di crudeltà: come nel caso di Hakamada Iwao, ultraottantenne cui dopo 40 anni nel braccio della morte è stato negato un nuovo processo, e di Okunishi Masaru, deceduto di vecchiaia a 89 anni dopo aver trascorsi gli ultimi 46 nel braccio della morte.
Le loro vicende sono la regola, piuttosto che l’eccezione: spesso i prigionieri passano decenni in isolamento e vengono informati dell’esecuzione solo poche ore prima che abbia luogo.
Nei bracci della morte del Giappone restano in attesa 111 prigionieri. Le organizzazioni per i diritti umani chiedono che, nell’anno delle Olimpiadi, Tokio proclami una moratoria in vista dell’abolizione della pena capitale.
Post di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, pubblicato sul blog Le persone e la dignità