Hakamada Iwao, 75 anni, da 43 nel braccio della morte in Giappone

10 Marzo 2011

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Amnesty International e la Rete asiatica contro la pena capitale (Adpan, un network abolizionista di 23 paesi) hanno chiesto al ministro della Giustizia del Giappone di tirare fuori dal braccio della morte Hakamada Iwao, che il 10 marzo ha compiuto 75 anni, gli ultimi 43 dei quali trascorsi in attesa dell’esecuzione.

Le due organizzazioni hanno sollecitato l’applicazione dell’articolo 479 del Codice di procedura penale, che prevede la sospensione dell’esecuzione per i detenuti che soffrono di malattia mentale.

Hakamada Iwao è nel braccio della morte dal 1968. È stato condannato all’impiccagione nel 1966, al termine di un processo iniquo che lo ha ritenuto colpevole dell’omicidio del direttore della fabbrica presso la quale era impiegato, della moglie e dei loro due figli.

Hakamada si dichiarò colpevole dopo 20 giorni di interrogatori senza avvocato. In seguito ritrattò la confessione affermando di essere stato picchiato e minacciato. Nel 2007 uno dei giudici che emise la condanna ha ammesso di essere convinto dell’innocenza dell’imputato, a differenza degli altri due giudici.

Le condizioni mentali di Hakamada hanno iniziato a peggiorare mesi dopo l’emissione della condanna a morte fino al punto in cui, ultimamente, è stato descritto come ‘confuso, disorientato e vaneggiante. Pare rifiuti le cure mediche per l’ipertensione e soffre di diabete. La direzione della prigione ha negato l’accesso alla cartella medica ai suoi familiari e agli avvocati.

In Giappone non si commuta una condanna a morte dal 1975. Le impiccagioni hanno luogo in segreto: i detenuti vengono a sapere dell’esecuzione solo poche ore prima, i familiari dopo. Ciò significa che i prigionieri vivono nella costante paura dell’esecuzione, per anni e anche per decenni, sviluppando in questo modo depressione e malattia mentale.

Amnesty International ha anche chiesto al governo giapponese di avviare una revisione immediata e imparziale di tutti i casi in cui vi siano prove credibili che i prigionieri possano aver sviluppato malattia mentale e dunque ricadere nella previsione dell’articolo 479 del Codice di procedura penale.