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“Abbiamo lottato per 58 anni. Quando il giudice ha dichiarato l’imputato non colpevole, la sua voce sembrava divina. Ero così felice e commossa che ho pianto per un’ora. Sono molto riconoscente alla Federazione degli ordini degli avvocati del Giappone e ad Amnesty International”, Hideko, sorella di Iwao Hakamada.
Iwao Hakamada ha passato quasi mezzo secolo nel braccio della morte. Quarantasei anni a svegliarsi ogni mattina senza sapere se sarebbe stata l’ultima. Quarantasei anni a vivere con il fiato sospeso, molti dei quali passati in isolamento.
Il 26 settembre 2024, dopo 56 anni, il tribunale di Shizuoka lo ha definitivamente assolto. Un mese dopo, la procura ha annunciato che non avrebbe più fatto ricorso. Ma chi gli restituirà il tempo perduto?
È il 1966 quando Hakamada, ex pugile professionista, viene arrestato con l’accusa di aver ucciso il suo datore di lavoro, la moglie e i loro due figli. I corpi vengono trovati in casa, dati alle fiamme. Nessuna prova concreta, nessun testimone. Solo una “confessione” estorta dopo oltre 20 giorni di interrogatori disumani.
Lo picchiano. Lo minacciano. Gli dicono che, se non avesse confessato, non avrebbe mai più visto la luce del sole. E così, alla fine, crolla. Scrive su un pezzo di carta che sì, ha commesso il delitto. Ma in aula, davanti ai giudici, Hakamada si riprende ciò che gli era stato strappato: “Sono innocente”, afferma, “mi hanno costretto a dire quello che volevano sentire”.
Non serve a nulla. Il tribunale lo condanna a morte nel 1968, viene chiuso in una cella e privato di tutto: la libertà, il futuro, la speranza.
Nel braccio della morte il tempo si dilata, si contorce. Ogni mattina Hakamada si sveglia senza sapere se arriverà la fine. In Giappone, i condannati a morte non vengono avvisati in anticipo sul giorno della loro esecuzione. Ti prelevano dalla cella e, pochi minuti dopo, sei appeso ad una corda. Fine della storia.
Così, per decenni, Hakamada vive con il terrore che ogni giorno possa essere l’ultimo. Ogni passo di una guardia, ogni rumore di chiavi, ogni porta che si apre può significare una fine, la sua.
Nel braccio della morte l’unica compagnia è la propria mente e la mente di Hakamada comincia a cedere. Allucinazioni, paranoia, depressione. Il tempo spezza anche il pugile più forte.
Eppure, nonostante tutto, Hakamada resta in piedi. Anche quando il mondo sembra averlo dimenticato, fatta eccezione per sua sorella, Hideko Hakamada, le associazioni abolizioniste giapponesi e Amnesty International.
Ci sono voluti decenni e oltre 600 nuove prove per ottenere un nuovo processo. Nel 2014, dopo 48 anni di prigionia, Hakamada viene finalmente scarcerato in attesa della revisione del caso. Ha 78 anni e ha smesso di conoscere il mondo cinquant’anni prima.
L’accusa fa di tutto per riportarlo dentro: impugna la decisione, cerca cavilli, insiste che la confessione – ottenuta con la violenza – sia comunque valida. Amnesty International e migliaia di persone non demordono: una petizione che raccoglie oltre 22.000 firme solo in Italia chiede a gran voce giustizia. E alla fine, nel 2023, inizia finalmente il nuovo processo. Fino ad arrivare al 26 settembre 2024, quando la sentenza tanto attesa viene pronunciata: “Iwao Hakamada è assolto”.
Hakamada ha 88 anni, è un uomo libero, ma il prezzo che ha pagato è incalcolabile. La sua vita è stata spezzata, il suo spirito segnato per sempre. La giustizia è arrivata, ma con mezzo secolo di ritardo.
Eppure, il suo caso ha acceso un faro sul sistema giapponese della pena di morte, sulle ingiustizie, sulle confessioni estorte, sulle vite distrutte senza prove concrete. Amnesty International continuerà a lottare perché quello che è successo a lui non accada più a nessuno.
Hakamada, con la sua resistenza silenziosa, è diventato il simbolo di una battaglia più grande. Un passo verso la vittoria, ma il cammino per un mondo senza pena di morte è ancora lungo.
Yuichi YAMAZAKI / AFP
Dietro il lungo percorso per la libertà di Hakamada, c’è una donna che non ha mai smesso di lottare: sua sorella Hideko. Oggi ha 92 anni e per quasi sessant’anni ha combattuto per dimostrare l’innocenza del fratello. Temeva che Iwao non avrebbe mai più sorriso in prigione. Così, ogni volta che andava a trovarlo gli sorrideva, affinché non se ne dimenticasse. Quando lei sorrideva, anche lui lo faceva. Era il suo modo di tenerlo ancorato alla vita.
Nel 1980, quando il ricorso di Iwao viene respinto e la condanna a morte confermata, Hideko si sente sola contro tutti. Poi, grazie al supporto della Federazione giapponese degli ordini forensi e di Amnesty International, trova nuova forza. Con il tempo, comprende la verità sulla pena di morte. Le è chiaro ora, nessun essere umano dovrebbe decidere sulla vita di un altro e non solo quando si tratta della vita del fratello. Così Hideko attraversa il Giappone per sensibilizzare la popolazione, parlando con chi non ha mai sentito parlare del caso di suo fratello, con la consapevolezza che ogni voce possa fare la differenza.
Dopo 58 anni di lotta, Hideko ha finalmente visto la giustizia trionfare.
Amnesty International si oppone incondizionatamente alla pena di morte, ritenendola una punizione crudele, disumana e degradante ormai superata, abolita nella legge o nella pratica (de facto), da più di due terzi dei paesi nel mondo.
La pena di morte viola il diritto alla vita, è irrevocabile e può essere inflitta a innocenti. Non ha effetto deterrente e il suo uso sproporzionato contro poveri ed emarginati è sinonimo di discriminazione e repressione.
Oggi, più di tre quarti dei paesi al mondo ha abolito la pena capitale per legge o nella pratica. Scopri di più.