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Dopo 46 anni Hakamada Iwao è tornato a casa. Ha riabbracciato finalmente sua sorella che in questi anni ha lottato per lui. Ha di nuovo sorriso, il più grande ringraziamento per le persone che in tutto il mondo in questi anni hanno chiesto la sua libertà.
Ex pugile professionista giapponese, Hakamada Iwao è il detenuto che ha trascorso più tempo nel braccio della morte. Il suo “primato” è stato registrato anche nel Guinness World Records. Arrestato il 18 agosto 1966, l’uomo è stato condannato a morte due anni dopo dalla Corte distrettuale di Shizuoka per un omicidio plurimo. Il 19 novembre 1980 la Corte suprema del Giappone ha confermato la sentenza.
Per decenni le battaglie di Amnesty International hanno adottato il caso di Hakamada Iwao per denunciare il Giappone dove le esecuzioni capitali non sono commutate dal 1970. I condannati sono informati della loro esecuzione solo il giorno in cui essa ha luogo e le famiglie solitamente dopo. Vivere per anni, o addirittura per decenni, nella paura costante di un’esecuzione immediata conduce spesso a una profonda depressione e a malattie mentali.
Nel 1966 Hakamada Iwao aveva 30 anni, si era ritirato dalla boxe e lavorava nella città di Shimizu in un impianto per la produzione di miso (pasta di soia per uso alimentare). Il 30 giugno 1966 la polizia rinvenne i cadaveri accoltellati del direttore dell’impianto, di sua moglie e dei due figli: dall’abitazione erano stato rubati 200.000 yen e questa era stata data alle fiamme. Ad agosto la polizia lo arrestò con l’accusa di omicidio, rapina e incendio doloso.
Mentre era in custodia, Hakamada Iwao venne interrogato per 23 giorni consecutivi, in media 12 ore al giorno mentre veniva minacciato e picchiato, e senza la presenza di un avvocato. “Non potevo far altro che accovacciarmi sul pavimento cercando di non defecare”, scrisse in una lettera alla sorella Hideko. “Durante quei momenti qualcuno ha messo il mio pollice su un tampone di inchiostro, lo ha premuto sotto una confessione scritta e mi ha ordinato: ‘Scrivi qui il tuo nome’ mentre mi inveiva contro, mi prendeva a calci e mi stritolava il braccio“.
Hakamada Iwao si è sempre proclamato innocente. Durante gli anni della sua detenzione, l’unico contatto umano quotidiano è stato con le guardie carcerarie. Non poteva guardare la televisione né svolgere attività personali. Fatta eccezione per l’uso del bagno e di due o tre sessioni di ginnastica a settimana, non poteva lasciare la cella e doveva rimanere seduto. In isolamento nel braccio della morte, Hakamada Iwao ha cominciato a manifestare segni di squilibrio mentale e comportamentale.
Nel 2007, Norimichi Kumamoto, uno dei tre giudici che lo hanno condannato, si è espresso in difesa di Hakamada Iwao spiegando di aver sempre creduto nella sua innocenza, ma di non essere riuscito a convincere i suoi colleghi al momento del giudizio. La dichiarazione è stata rilasciata in violazione di una legge che proibisce di rivelare le discussioni tra giudici in camera di consiglio, ma Kumamoto, che si è dimesso in segno di protesta l’anno dopo il processo, si dice pentito di non essersi fatto avanti prima. Il suo rammarico serve a mantenere almeno in parte la promessa fatta da Hakamada Iwao al figlio nel 1983: “Voglio dimostrarti che tuo padre non ha mai ucciso nessuno, che la polizia lo sa bene e che saranno i giudici a dispiacersi. Spezzerò questa catena di ferro e tornerò da te“.
La svolta arriva nel marzo 2014: la corte distrettuale di Shizuoka ha accolto la richiesta di un nuovo processo per Hakamada Iwao e ne ha ordinato la scarcerazione. Il 31 marzo 2014, la procura giapponese ha presentato ricorso contro la decisione di consentire l’apertura di un nuovo processo.