Intervista a Fabio Masi, autore e regista di Blob

24 Aprile 2024

Tania Cristofori

Tempo di lettura stimato: 6'

Collabori da tempo con Amnesty International, hai realizzato due documentari sui diritti umani “Candle in barbed wire” e “Male nostrum”. Da dove nasce l’interesse per queste tematiche?
Il tema dei diritti umani lo troviamo in ogni cosa che vediamo, in ogni cosa che facciamo, non è un argomento riservato solo a certi dibattiti o in certe realtà, di fatto è presente sempre. L’offerta mediatica attraverso le sue molteplici angolature e talvolta spigolature, contiene spesso un risvolto o un sottofondo che parla di diritti. Dopo 20 anni in un programma come Blob che si nutre di contenuti televisivi e web, ho forse imparato a cogliere l’essenziale dalle notizie, a decodificare certi messaggi e a demolire alcune strutture superflue che costituiscono l’impalcatura di certi contenuti. Quando ci riesco mi accorgo che il tema dei diritti è uno dei temi fondativi di tutte le costruzioni artistiche o presunte tali. Le collaborazioni con Amnesty rappresentano l’occasione di poter raccontare l’essenziale di certi argomenti senza cedere alle lusinghe della spettacolarizzazione, l’altro tema fondativo delle espressioni artistiche televisive e cinematografiche. 

Nel programma per cui lavori, Blob, inserisci spesso contenuti legati ai diritti umani. È possibile parlare di diritti umani attraverso la satira?
La forza di Blob è stata fin dalla prima puntata quella di riuscire ad alternare momenti divertenti a quelli più drammatici, inventando un linguaggio narrativo fatto di alto e basso, di sacro e profano, di bellezza e orrore. Questa miscela di ingredienti lo ha reso il programma cult di Rai3 che quest’anno compie 35 anni. Le immagini dell’uomo che ferma la fila di carri armati a piazza Tienanmen durante la rivoluzione studentesca del 1989 in Cina, anno in cui nasce Blob, sono di per sé un contenuto drammatico, ma se associato a una musica di sottofondo o a un taglio dell’immagine verso un contenuto totalmente dissonante, può assumere un altro significato e mandare un messaggio diverso. Anche questo è Blob. La satira prende sempre spunto dalle debolezze umane, dai nostri errori e dai nostri difetti e questo spesso coincide con dinamiche legate ai diritti umani. Nel corso degli anni, il programma si è trasformato perché si è trasformata l’offerta televisiva di cui si nutre e abbiamo cominciato a dedicare puntate speciali monotematiche a sfondo sociale, argomento in fondo, e neppure troppo, presente in ogni puntata. 

Sempre più spesso le persone, soprattutto le nuove generazioni, non si informano attraverso il giornalismo classico ma sui social, quali sono a tuo avviso i pro e i contro?
L’informazione attraverso i social presenta le stesse controindicazioni di quella fruita attraverso la televisione, il punto è imparare a informarsi nel modo corretto. Se il desiderio di informarsi dura il tempo in cui il dito “scrolla” da un reel all’altro, esiste il rischio che diventi un attacco bulimico di contenuti, capace di mostrarci un bambino con una scodella in fila per il cibo a Gaza e subito dopo uno chef stellato che cucina una bistecca da un kilo, per poi passare a una sfilata di moda o all’ennesimo lavoro di bricolage a seconda dei nostri gusti o le nostre preferenze. Drammaticamente anche questo è un blob, con la differenza che diventiamo noi stessi gli autori materiali. Dovremmo cercare di imparare a gestire questa offerta cinica e spietata a cui siamo sottoposti, dalla quale nessuna generazione può definirsi più o meno a rischio. 

Hai una modalità narrativa che punta a mostrare la realtà senza però scadere nel pietismo. Qual è secondo te il filo che divide il diritto di cronaca dal sensazionalismo?
È un filo sottilissimo quello che divide il diritto di cronaca dalla spettacolarizzazione dell’evento. Molti programmi televisivi hanno impostato la propria linea editoriale verso la cronaca nera, con lo scopo sì di raccontare fatti drammatici che hanno scosso e scuotono l’opinione pubblica, ma talvolta stuzzicando abilmente la morbosità insita in ognuno di noi. Indugiare in certe immagini, in certe inquadrature, utilizzare la giusta o meglio furba terminologia per catalizzare l’attenzione dello spettatore che si identifica in quel dramma o in quella tragedia, è una tecnica efficace e vincente. Dopo il tragico naufragio di Cutro avvenuto la notte tra il 25 e 26 febbraio 2023, dove morirono annegate 95 persone di cui 35 tra ragazzi e bambini, le immagini degli inviati nella tragedia raccontavano i resti delle vite perdute dispersi sulla spiaggia calabrese. Inviati come funamboli ubriachi si aggiravano su quella spiaggia tra zainetti, giocattoli, ciucci e portafogli, come se fossero alla ricerca di un tesoro perduto da poter raccontare. Sono convinto che certe immagini non abbiano bisogno di essere raccontate, le immagini forti e dirompenti di un paio di scarpe rotte o di alcuni giocattoli di un bambino annegato che arrivano su una spiaggia dopo un naufragio, si raccontano da sole. 

Articolo a cura di Francesca Corbo, Ufficio del portavoce, per il numero 2 del trimestrale I Amnesty.

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