Iran, un anno dalla rivolta. Amnesty International: “La comunità internazionale non deve lasciare impunita la violenta repressione”

13 Settembre 2023

©Francesca Maceroni

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A un anno dall’inizio della rivolta “Donna Vita Libertà” in Iran, Amnesty International ha sollecitato la comunità internazionale a intraprendere tutti i percorsi di giustizia a disposizione per contrastare la sistematica impunità di cui beneficiano le autorità iraniane, responsabili di centinaia di uccisioni illegali di manifestanti e di diffuse torture.

Nell’ultimo anno, le autorità iraniane hanno commesso una sequela di crimini di diritto internazionale per stroncare ogni minaccia al loro potere: centinaia di uccisioni illegali, l’impiccagione di sette manifestanti, decine di migliaia di arresti arbitrari, torture massicce comprendenti anche gli stupri delle detenute, intimidazioni nei confronti delle famiglie che chiedono verità e giustizia e rappresaglie contro le donne e le ragazze che sfidano le leggi discriminatorie sull’obbligo d’indossare il velo.

“Le autorità iraniane hanno trascorso un anno infliggendo inenarrabili crudeltà a persone che con coraggio avevano sfidato decenni di repressione e disuguaglianza. Un anno dopo la morte nelle mani della polizia di Mahsa/Zhina Amini, non c’è stata un’indagine, per non parlare di processi o condanne per i crimini commessi durante e dopo la rivolta”, ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

“L’anniversario delle proteste ‘Donna Vita Libertà’ suona come un crudo monito affinché gli stati avviino indagini, basate sulla giurisdizione universale, sugli spietati crimini commessi dalle autorità iraniane. È più che mai importante, affinché le vittime non siano lasciate sole nei momenti più bui, che i governi chiedano alle autorità iraniane di porre fine all’impiego illegale delle armi da fuoco contro i manifestanti e alle torture nei confronti dei detenuti e di scarcerare tutte le persone imprigionate per aver esercitato pacificamente i loro diritti umani”, ha aggiunto Eltahawy.

L’oppressione contro le donne e le ragazze che sfidano le leggi obbligatorie sul velo

Nel corso dell’ultimo anno, le autorità iraniane hanno condotto un attacco a tutto tondo contro i diritti delle donne e delle ragazze.

Nonostante mesi di proteste contro le norme sull’obbligo d’indossare il velo, iniziate a seguito della morte nelle mani della polizia di Mahsa/Zhina Amini, le autorità iraniane hanno ripristinato le operazioni di politiche in nome della “morale” e introdotto una serie di altre misure che privano dei loro diritti le donne e le ragazze che sfidano quelle norme discriminatorie.

Questi nuovi provvedimenti comprendono il sequestro delle automobili, il divieto di accesso al lavoro, all’istruzione, alle cure mediche, ai servizi bancari e ai trasporti pubblici. Al contempo, le autorità iraniane hanno svolto processi ed emesso condanne al carcere, a multe e a punizioni degradanti come ad esempio lavare i cadaveri.

L’attacco ai diritti delle donne sta avendo luogo in un contesto di discorsi d’odio da parte delle autorità, che descrivono la lotta contro il velo come “un virus”, “una malattia sociale” o “un disordine” e che equiparano la scelta di non indossare il velo alla “depravazione sessuale”.

Sono all’esame ulteriori misure per introdurre pene ancora più dure per chi sfida l’obbligo d’indossare il velo.

Clamorose menzogne sulle centinaia di uccisioni illegali

Tra settembre e dicembre del 2022, le forze di sicurezza iraniane hanno scatenato una brutale repressione di tipo militare, uccidendo illegalmente centinaia di manifestanti e persone che assistevano alle proteste, compresi decine di minorenni. Oltre la metà delle persone uccise apparteneva alle oppresse minoranze etniche dei baluci e dei curdi.

Le autorità iraniane non solo non hanno chiamato a rispondere alcun responsabile di questi crimini ma hanno anche trascorso l’ultimo anno a raccontare clamorose menzogne al pubblico e alla comunità internazionale, descrivendo le persone che scendevano in strada come “teppisti” e “persone non identificate” e le loro uccisioni come “suicidi” o “incidenti”. Parallelamente, hanno aggravato la sofferenza delle famiglie delle vittime attraverso incessanti minacce e intimidazioni.

Arresti di massa e convocazioni per interrogatori

Durante la rivolta e nei mesi successivi, le autorità iraniane hanno arrestato decine di migliaia di donne e uomini, anche minorenni, tra i quali manifestanti, difensori dei diritti umani e attivisti per i diritti umani delle minoranze. Tra le persone finite in carcere ci sono almeno 90 tra giornalisti e altri operatori dell’informazione e 60 avvocati, compresi quelli che rappresentavano le famiglie dei manifestanti uccisi. Decine di altri avvocati sono stati convocati per interrogatori.

Alla vigilia dell’anniversario della rivolta, le autorità iraniane hanno intensificato la campagna di arresti arbitrari, anche ai danni dei familiari dei manifestanti uccisi, e hanno costretto migliaia di studenti universitari a firmare dichiarazioni contenenti l’impegno a non partecipare alle proteste di questi giorni.

Uno tsunami di torture

Durante la rivolta, le forze di sicurezza hanno illegalmente sparato proiettili veri e pallottole di metallo per disperdere e terrorizzare le persone che manifestavano, causando ferite equivalenti a tortura quali la perdita della vista o degli arti e la riduzione della mobilità. Migliaia di manifestanti, minorenni inclusi, sono stati poi torturati in carcere.

Molte delle persone sopravvissute alla tortura stanno ancora subendo le conseguenze fisiche di lungo periodo e affrontando i traumi psicologici.

Impiccagioni di manifestanti

Nell’ultimo anno le autorità iraniane hanno usato sempre di più la pena di morte come strumento di repressione politica per instillare paura nella popolazione: sette manifestanti sono stati impiccati al termine di processi vergognosamente irregolari.

Alcuni di loro sono stati messi a morte per il presunto reato di danneggiamento di beni pubblici, altri dopo essere stati giudicati colpevoli della morte di agenti delle forze di sicurezza durante le proteste.

Tutte queste condanne a morte sono state ratificate come con un timbro dalla Corte suprema, nonostante la mancanza di prove e senza che ritenesse opportuno ordinare indagini sulle denunce di tortura presentate dagli imputati.

Altre decine di persone rischiano la condanna a morte o l’impiccagione in relazione alle proteste.

Una crisi d’impunità

Le autorità iraniane hanno rifiutato di condurre indagini complete, indipendenti e imparziali sulle violazioni dei diritti umani commesse durante e dopo la rivolta “Donna Vita Libertà” e non hanno preso alcun provvedimento per chiamare a rispondere del loro operato le persone sospettate di azioni criminali.

Per di più, hanno anche plaudito alle forze di sicurezza per aver soppresso le proteste e hanno favorito l’impunità nei confronti dei responsabili delle violazioni dei diritti umani, persino di due agenti che avevano ammesso di aver stuprato delle manifestanti a Teheran. Hanno respinto le denunce delle vittime e/o delle loro famiglie, minacciandole di morte o di altre conseguenze se avessero insistito.

Amnesty International ha apprezzato la decisione, assunta nel novembre 2022 dal Consiglio Onu dei diritti umani, d’istituire una Commissione di accertamento dei fatti sull’Iran, ma c’è ancora molto da fare per combattere la crisi dell’impunità e impedire ulteriori bagni di sangue.

Amnesty International ha pertanto sollecitato tutti gli stati a esercitare la giurisdizione universale e altre forme di giustizia extraterritoriale in relazione ai crimini di diritto internazionale e ad altre gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità iraniane, a prescindere dall’assenza o dalla presenza degli accusati nel loro territorio. È necessario avviare indagini, dotate di risorse adeguate, per scoprire la verità su tali crimini, identificarne i presunti responsabili comprese le persone con ruoli di comando ed emettere, ove vi siano prove sufficienti, mandati d’arresto internazionale. Gli stati dovrebbero anche contribuire a far sì che le vittime ottengano riparazioni.

 

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