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Il 16 novembre 21 prigionieri iracheni, tra cui persone condannate per affiliazione al gruppo “Stato islamico”, sono stati messi a morte nel carcere di Nassiriya.
Dalla fine delle operazioni militari che, tre anni fa, hanno consentito di riprendere il controllo di zone dell’Iraq finite nelle mani dello “Stato islamico”, i tribunali iracheni hanno processato migliaia di presunti appartenenti al gruppo armato, anche di nazionalità straniera, emettendo frequenti condanne a morte anche basate su “confessioni” estorte con la tortura.
Nel 2019 l’Iraq è risultato il quarto paese per numero di esecuzioni, un centinaio, il doppio rispetto all’anno precedente.
“Questa forma di rappresaglia per via giudiziaria non solo non dà giustizia alle vittime e alle loro famiglie ma rafforza anche la sensazione di una giustizia di parte, proprio in un momento nel quale le autorità non indagano su altre gravi violazioni dei diritti umani, come la tortura e le esecuzioni extragiudiziali, che stanno avvenendo nel paese“, ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.
“Se le autorità irachene vogliono davvero lasciarsi alle spalle il periodo del conflitto con lo ‘Stato islamico’, è bene che cessino di perpetuare quel genere di azioni che hanno alimentato il precedente ciclo di violenza: di quelle azioni, le 21 esecuzioni del 16 novembre sono un macabro esempio“.