© Kiana Hayeri / Amnesty International
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È passato un anno dalla presa del potere dei talebani in Afghanistan. Un anno duro, violento, all’insegna delle violazioni dei diritti umani. Per alcune persone, però, le cose sono state più dure che per altre.
Dal 15 agosto 2021 l’erosione dei diritti non si è mai fermata: le donne e le ragazze afgane non possono più studiare, lavorare o più semplicemente uscire di casa senza la supervisione di un uomo.
È passato un anno, ma non possiamo dimenticarci di loro.
Com’è stato vivere in Afghanistan nei giorni della presa di Kabul? Cosa succede quando si riesce a fuggire? Quale futuro si prospetta per le donne che si trovano lì?
Per rispondere a queste domande e tenere alta l’attenzione sui diritti delle donne in Afghanistan, abbiamo intervistato Zarlasht Barek, un’attivista afgana rifugiata in Italia. Ci ha raccontato la sua storia fatta di sacrifici, paura e sofferenza, ma anche di supporto, coraggio e amore.
Sono Zarlasht Barek e sono afgana. Sono riuscita a lasciare il paese ad agosto dell’anno scorso, dopo la caduta del governo. La mia famiglia è composta da sole donne, a parte mio padre, e rimanere in Afghanistan era molto difficile. Per questo, dopo aver affrontato diverse difficoltà e sfide – come ad esempio raggiungere l’aeroporto per l’evacuazione – abbiamo deciso di lasciare tutto alle nostre spalle e ricominciare da capo. Siamo riusciti ad arrivare qui in Italia e abbiamo ricominciato a vivere.
No, veramente no. Sono nata in guerra e sono cresciuta in guerra. Spero che la mia vita non finirà in guerra. Ora non vivo più lì, ma non ho mai visto la pace in Afghanistan. C’è sempre stata la paura della guerra, la disuguaglianza, le disparità e diversi altri problemi.
Sì, ma dopo l’intervento della comunità internazionale nel 2001, la situazione era abbastanza diversa. Quando passi da una situazione peggiore a una semplicemente meno brutta, pensi che vada bene.
Quando era in piedi il regime dei talebani negli anni ‘90 e nel 2001 vivevamo in un’era completamente diversa: attacchi alla società civile, attentati, rapimenti, uccisioni. È stata una grande sfida.
Conoscevo molti amici e amiche che hanno perso la vita. Mia sorella è una sopravvissuta a uno dei più grandi bombardamenti che ha avuto luogo nel suo ufficio. Ed è ancora traumatizzata: ogni volta che sente un grande rumore, le sale l’ansia e chiede: “Che succede? Che succede?”.
Durante le giornate, anche quando lavoravo con alcune cooperative italiane e con altre organizzazioni internazionali, pensavo: “Forse questo è il giorno in cui il nostro ufficio verrà colpito da un attacco, forse non tornerò a casa viva”. Questa paura è sempre stata con noi.
È stato un momento indimenticabile. Uno o due mesi prima, tutte le persone avevano la percezione che la situazione stesse peggiorando. Nessuno, però, pensava che i talebani sarebbero entrati facilmente a Kabul o dentro il paese. Mio padre non ci stava pensando per davvero; io lavoravo per una Ong e mia sorella come giornalista, tutte noi (le altre sorelle, N.d.T.) lavoravamo per organizzazioni internazionali. Pensavamo che i negoziati e gli accordi in corso non avrebbero portato alla cessione del paese ai talebani.
Uno o due giorni prima, stavo parlando con una mia collega italiana che mi diceva: “La situazione sta peggiorando, qual è il vostro piano?” e ho pensato: “Magari andrò in Turchia, se la situazione peggiora, si può andare lì”. Quel giorno – era domenica, lo ricordo perché stavo lavorando dal momento che non lo avevamo fatto venerdì e sabato – dovevo andare in ufficio con mia sorella. Una volta sveglie, abbiamo avuto una brutta sensazione.
Mia sorella mi ha detto: “Non mi sento bene, sento un dolore, una tristezza nel cuore”. E le ho detto: “Anche io. Sento la stessa cosa di quando abbiamo perso mamma”. Sapevamo che stava per succedere qualcosa. Siamo uscite per andare in ufficio e mi ricordo di essermi cambiata i vestiti, perché indossavo dei pantaloncini corti e mia sorella mi ha detto: “Non metterli. La situazione sta peggiorando e non ti conviene indossarli per andare in ufficio, non sappiamo cosa succederà”.
Quando sono arrivata in ufficio, stavo sistemando delle cose quando ho ricevuto una chiamata da mia sorella: il nostro quartiere era stato preso dai talebani. Mi ha detto di avvisare le nostre sorelle, di non tornare a casa. Sono andata nel panico.
Ho iniziato a piangere, stavo cercando una mia collega che aveva il burqa in ufficio. Ogni tanto le chiedevo: “Ma cosa fai con questo burqa?” e lei mi diceva: “Quando i talebani arriveranno, almeno lo avrò con me e potrò scappare in aeroporto”.
Non era in ufficio quel giorno, ma continuavo a bussare alla sua porta chiedendo di aprirla, così avrei potuto usare il suo burqa. “Devo scappare, come faccio se non ho il burqa?”, dicevo.
E così sono riuscita ad andare a casa di mia sorella, insieme a tutte le altre, con molte difficoltà. Mia sorella, che lavora nel giornalismo, era preoccupata che scoprissero il suo tesserino da giornalista, così lo ha nascosto in una scarpa. È stato un incubo: ancora oggi ricordarlo mi fa molto male.
Ogni persona aveva la propria identità. Io avevo lasciato la mia vita per qualche anno perché ero rifugiata in Pakistan, ero senza documenti perché mio padre aveva deciso di andare lì durante il primo periodo dei talebani, dal momento che eravamo tutte ragazze e voleva che studiassimo. Lì stavamo bene, ma c’erano delle difficoltà, non avevamo una nostra identità.
Ma dopo il 2001, eravamo così fiere: avevamo il nostro paese, potevamo vivere lì, potevamo studiare e lavorare.
Per qualche tempo ha funzionato. Potevamo uscire dal paese, viaggiare, studiare: io ho studiato in Europa, mia sorella in India. Siamo uscite spesso dal paese per incontri ed eventi simili.
A parte l’insicurezza che menzionavo prima, come i bombardamenti, la vita andava molto bene. Stavamo raggiungendo quello che sognavamo, a livello finanziario e a livello sociale tutto era bello, funzionava.
È stata una grande sfida. A volte piangevamo tutta la notte, specialmente quando eravamo separati, ognuno era in un luogo diverso. All’inizio, mio padre e mio suocero erano rimasti a Kabul, siamo riusciti poi a portarli qui.
In Italia è nata mia nipote, la figlia di mia sorella, entrata in coma dopo tre giorni per una malattia molto grave. Quando hai il primo bambino della famiglia e non hai nessuno di più grande vicino a te… È stato molto difficile per mia sorella, ha affrontato grandi sfide.
È stato molto difficile anche per me, non sapevo come mostrarle empatia, come starle vicina e cosa dirle. Non piangere per tua figlia, per la tua casa, per tuo marito? È stato difficile.
Ma sono davvero grata ai miei amici italiani: non ci hanno mai fatto sentire sole. La persona che è riuscita a portarci fuori dall’Afghanistan è una mia amica, si chiama Maddalena e ha lavorato tantissimo per farci arrivare in aeroporto, per farci lasciare il paese. Dice sempre: “Dovrei scrivere un libro su questa esperienza”.
Come ho detto, all’inizio è stato molto difficile. Non si tratta solamente di iniziare tutto da capo, ma anche di confrontarsi con la mentalità e la consapevolezza di persone che vivono in un altro paese.
Le persone sentono una singola storia e da lì giudicano. Mi dicevano: “Sei in Italia. Non hai trovato un posto migliore?”. La cosa ci preoccupava. Chiedevamo perché dicessero queste cose e mi rispondevano che era molto difficile trovare un lavoro qui. La lingua sarebbe stata difficile, certo, ma trovare lavoro sarebbe stato ancora peggio.
Quando eravamo in metropolitana per andare in ospedale a incontrare mia sorella e sua figlia, vedevamo diverse persone che vivevano in strada. “Finiremo anche noi lì?”, mi chiedeva mia sorella. Tutto ci sembrava così difficile.
Ma poi abbiamo iniziato a sviluppare il nostro approccio per integrarci nella società, capendo cosa e come fare. E abbiamo iniziato ad accogliere ogni cosa che ci arrivava, piccola o grande. Questo è stato il primo passo per ricominciare.
Mia sorella aveva studiato in India per un master, ma c’erano altre borse di studio per le ragazze afgane e ha presentato domanda. Ha ottenuto una fellowship con una grande organizzazione; io ho iniziato a lavorare.
Non so se è per il trauma dovuto a quello che è successo, ma non penso al futuro. Penso solo al presente. Penso solo che oggi vada bene e mi basta. Non ho idea di come sarà il futuro, se sarà positivo o negativo.
Appartengo a una famiglia che mi ha sempre sostenuto, mio padre e altri parenti. Rispetto ad altre donne afgane, abbiamo vissuto meglio. Ma come hanno dimostrato diverse ricerche, l’Afghanistan è uno dei posti peggiori per le donne.
Chiedo a tutte le Ong umanitarie e che lavorano per i diritti umani di non lasciare da sole le donne afgane: hanno già sofferto a lungo e stanno soffrendo ancora di più adesso.