L’Arabia Saudita e lo “sportwashing”

18 Dicembre 2019

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Domenica 22 dicembre si svolgerà in Arabia Saudita la seconda Supercoppa italiana, tra le squadre vincitrici del campionato di calcio e della coppa Italia. L’evento fa parte di un lucroso pacchetto: tre partite in cinque anni, in cambio di 21 milioni di euro.

Sarà il trionfo della strategia dello sportwashing, praticata principalmente dalle monarchie del Golfo persico e anche da paesi esterni all’area come l’Azerbaigian.

La traduzione del neologismo inglese è un po’ lunga: sfruttare lo sport per rendere moderna la propria immagine e far distogliere lo sguardo dalla pessima situazione dei diritti umani.

L’esordio di questa strategia può essere collocato a cavallo tra lo scorso e l’attuale decennio: sulle maglie di importanti squadre di calcio sono comparsi sponsor, magnati arabi hanno acquisito quote azionarie, diversi stadi hanno assunto denominazioni di aziende dell’area così come team di sport di gruppo come il ciclismo.

In una seconda fase, l’attenzione è stata posta sull’accreditamento sulla scena globale dei paesi del Golfo come soggetti in grado di poter ospitare e organizzare eventi sportivi internazionali. Il massimo esempio è quello del Qatar, che si è visto assegnare i mondiali di calcio del 2022.

Il Bahrein, gli Emirati arabi uniti e lo stesso Qatar sono tappe ormai fisse dei calendari delle gare di automobilismo e motociclismo.

Ma torniamo all’Arabia Saudita. Solo nel 2019, oltre all’ultima e alla prossima edizione della Supercoppa di serie A, il paese ha ospitato un gran premio automobilistico di Formula E, la rivincita tra Anthony Joshua e Andy Ruiz Jr per il titolo di campione del mondo di pugilato, categoria pesi massimi versioni WBA, IBF, WBO e IBO, la finale tra Fognini e Medvedev della Tennis Cup Diriyah.

Nel 2020 si aggiungerà agli eventi sportivi anche il giro ciclistico dell’Arabia Saudita.

Perché lo sportwashing è così vincente?

Due le ragioni principali: l’enorme quantità di denaro disponibile per organizzare eventi e il prevalere dell’antica idea che “lo sport non deve mescolarsi con la politica“. Un’idea che sopravvive sin dai tempi della finale di Coppa Davis tra Italia e Cile del 1973.

Va poi tenuto conto del pubblico cui è diretto lo sportwashing: quello degli appassionati e dei tifosi, non necessariamente sensibili e, nella maggior parte dei casi, infastiditi dalle “interferenze” nella fruizione di uno spettacolo sportivo.

Aggiungiamo infine un giornalismo, quello delle pagine dello sport, a sua volta concentrato sull’evento e per il quale parlare dei diritti umani “spetta alla redazione esteri”.

Non mancano coloro che sostengono che queste iniziative aiuteranno le riforme o costituiranno un’occasione per parlare proprio di diritti umani.

L’idea che si arrivi in Arabia Saudita per giocare una partita di calcio e si possa perorare la causa delle attiviste per i diritti delle donne in carcere, dei dissidenti lasciati a languire in prigione, delle bombe che da quattro anni e mezzo devastano lo Yemen, delle decine di decapitazioni mensili in pubblica piazza, è semplicemente ingenua o colpevole. E infatti non è mai successo.

Il punto è l’opposto: più si sta al gioco dello sportwashing e più si accredita l’immagine finta di un paese moderno, aperto e avviato sulle riforme. La ex compagna di Jamal Khashoggi, il giornalista trucidato nell’ottobre del 2018 nel consolato saudita di Istanbul, in questi giorni in Italia, ha chiesto di non cascarci più.

Anche perché il washing si sta rivolgendo ad altri ambiti: lo scorso anno il re del Bahrein ha lautamente pagato l’intitolazione a sé stesso di una cattedra dell’Università La Sapienza di Roma e quest’anno c’è mancato poco che l’Arabia Saudita entrasse nel consiglio di amministrazione della Fondazione del Teatro La Scala di Milano.