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In un nuovo rapporto presentato questa mattina a Dakar, abbiamo denunciato come in Mauritania la repressione contro i difensori dei diritti umani e contro coloro che denunciano discriminazione e schiavitù sia in pericoloso aumento.
Coloro i quali trovano il coraggio di denunciare queste gravi violazioni dei diritti umani, infatti, vanno incontro ad arresti arbitrari, torture, detenzione in centri isolati e il sistematico divieto delle loro manifestazioni.
Il rapporto accusa il governo mauritano di negare sistematicamente l’esistenza della schiavitù.
“Nonostante la schiavitù sia stata abolita per legge quasi 40 anni fa, il governo mauritano mostra profondo disprezzo per i diritti umani continuando non solo a tollerarla ma anche perseguitando coloro che la denunciano”, ha dichiarato Alioune Tine, direttore di Amnesty International per l’Africa centrale e occidentale.
È stato inoltre evidenziato come il governo mauritano impieghi varie tattiche per zittire i difensori dei diritti umani e gli attivisti: dal divieto di svolgimento di manifestazioni pacifiche all’uso della forza eccessiva contro i dimostranti, dalla messa fuorilegge di gruppi di attivisti all’interferenza nelle loro attività.
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Con l’approssimarsi, quest’anno e il prossimo, delle elezioni, il rischio di rivolte sociali sarà alto se tutte le opinioni, comprese quelle critiche, non verranno rispettate.
Dal 2014, abbiamo documentato 168 arresti arbitrari di difensori dei diritti umani, almeno 17 dei quali sono stato sottoposti a maltrattamenti e torture.
Le pratiche discriminatorie colpiscono soprattutto la comunità haratin e le comunità afro-mauritane, i cui membri raramente accedono a posizioni di vertice e subiscono ostacoli nella registrazione all’anagrafe, ciò che limita tra l’altro l’accesso a servizi essenziali.
Nel 2016 i gruppi internazionali contro la schiavitù avevano stimato in 43.000 il numero delle persone ridotte in schiavitù in Mauritania, l’uno per cento della popolazione.
La polizia, la magistratura e i giudici non intervengono in modo efficace sulle denunce di sfruttamento, non identificano le vittime né puniscono i presunti responsabili.
Nel 2016 i tribunali che si occupano di schiavitù hanno ricevuto 47 denunce riguardanti 53 persone ma hanno condannato solo due imputati.
Il diritto di manifestazione in Mauritania è praticamente negato. Negli ultimi anni, 20 gruppi per i diritti umani hanno fatto sapere ad Amnesty International che le loro manifestazioni pacifiche erano state vietate o disperse, in alcuni casi con l’uso eccessivo della forza che aveva causato feriti tra i dimostranti.
Ma non sono solo le proteste a essere vietate: interi gruppi che combattono contro la schiavitù e la discriminazione sono messi fuorilegge.
Il rapporto documenta i casi di oltre 43 di questi gruppi che, nonostante ripetute richieste di registrazione, non hanno mai ottenuto l’autorizzazione.
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“Non essere riconosciuti come ‘associazione autorizzata’ è come avere una spada che pende sulle nostre teste. Portiamo avanti le nostre attività ma sappiamo che da un momento all’altro le autorità possono chiuderci e portarci in galera”, ha dichiarato Yacoub Ahmed Lemrabet, presidente di Kavana (una delle associazioni che non ha ottenuto l’approvazione della richiesta di registrazione).
“Gli agenti di polizia mi hanno ammanettato e bendato. Non avevo la minima idea di dove mi stessero portando. Quando siamo arrivati a destinazione, uno di loro mi ha detto ‘Benvenuto a Guantánamo’. Prima che mi interrogassero, una guardia mi ha avvisato: “Dì loro quello che vogliono sentirti dire. Lo sai che abbiamo quello che serve per farti parlare”.
Questa è la testimonianza di Amadou Tijane Diop, attivista anti-schiavitù arrestato nel 2016, che ci ha raccontato la sua storia.
Negli ultimi quattro anni sono stati arrestati 63 esponenti dell’Ira (l’associazione antischiavista Iniziativa per il risveglio del movimento abolizionista) e 23 del Movimento del 25 febbraio, un gruppo di giovani per la democrazia.
Almeno 15 esponenti dell’Ira sono stati condannati a pena detentiva dopo processi irregolari e alcuni di loro sono stati costretti a “confessare” mediante maltrattamenti e torture.
Campagne diffamatorie, aggressioni e minacce di morte si susseguono con totale impunità contro i difensori dei diritti umani, definiti spesso traditori, criminali, agenti stranieri, razzisti, apostati o politicanti. Queste intimidazioni provengono dai livelli più alti dello stato e da gruppi religiosi, spesso in concomitanza con riunioni internazionali in Europa.
Per esempio la difensora dei diritti umani Mekfoula Brahim è stata vittima di una campagna coordinata di diffamazioni sui social media e ha ricevuto minacce di morte solo per aver chiesto l’assoluzione del blogger Mohamed Mkhaïtir, condannato a morte per blasfemia.
“Campagne del genere, che descrivono i difensori dei diritti umani alla stregua di una minaccia alla sicurezza nazionale o ai valori culturali pongono queste persone a rischio e hanno un effetto distruttivo sulla libertà d’espressione”, ha commentato Tine.