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Ndume Olatushani ha passato ventotto anni in una prigione del Tennessee, di cui venti nel braccio della morte, per un reato che non aveva commesso. Aveva 26 anni quando è entrato in carcere.
Per venti anni ha vissuto in una cella di quattro metri per due contando i giorni che lo separavano dalla sedia elettrica.
“È stato difficile conservare la speranza necessaria per restare in vita“.
Una giuria di bianchi lo aveva condannato, ma lui si è sempre dichiarato innocente.
Il 2 ottobre del 1983, alcuni ladri entrano in una drogheria. Il tentativo di rapina si conclude con l’omicidio del droghiere. Due prove sembravano “incastrare” Olatushani: un’impronta digitale e una testimone oculare.
Il suo primo avvocato non aveva mai difeso un condannato a morte. A causa della sua inesperienza, non ha convocato alcuni testimoni chiave che avrebbero fatto la differenza nella strategia difensiva.
Una giuria, composta solo da uomini bianchi, ha ritenuto Olatushani colpevole dell’omicidio.
Fu solo grazie alla determinazione di quella che diventerà sua moglie e di un abile avvocato che aveva preso a cuore il suo caso che Olatushani ha trovato la forza per ricorrere in appello, contro quella sentenza ingiusta. Ci sono però voluti decenni per arrivare alla verità.
Scavando negli archivi della polizia e ascoltando testimoni oculari, la difesa di Olatushani è arrivata alla verità: due persone, collegate a una gang, erano i veri autori dell’omicidio. La giuria che aveva deciso la sua condanna a morte non aveva preso in considerazione quelle prove.
Nel 1999, in appello, la Corte del Tennessee ha iniziato ad esaminare gli errori processuali commessi nel caso di Olatushani e, nel 2004, annullato la condanna a morte.
Dopo sette lunghi anni di processo, nel 2012 Olatushani accetta un accordo che gli consente finalmente di tornare libero.
Nessun altro sarà indagato per l’omicidio.
“La verità è che la razza era un problema primario, come sempre quando si parla di pena di morte in America -, ci racconta –. Razza e classe entrano in gioco. Sono stato accusato di aver ucciso una persona bianca nel sud degli Stati Uniti e sono stato processato da una giuria tutta bianca in una città a maggioranza nera. I pubblici ministeri hanno fatto di tutto per far rimuovere dalla giuria i giurati neri, ed è così che sono finito con una giuria tutta bianca. Penso che durante il mio processo, l’unico interesse dello Stato fosse chiudere velocemente il mio caso, non certamente risolverlo. Sapevano che io ero innocente e tutte le prove che sono state usate contro di me, sono state fabbricate ad hoc“.
Ndume Olatushani racconta cosa significhi vivere nel braccio della morte. Un periodo lunghissimo, trascorso in una cella minuscola e privato di ogni diritto. Una lunga agonia che si sarebbe conclusa con l’esecuzione della condanna a morte.
“Tra le celle del braccio della morte e quelle del resto della popolazione carceraria c’è una differenza abissale: come la notte e il giorno. Prova a immaginare cosa vuol dire vivere in una cella in cui non puoi nemmeno stendere le braccia? Immagina di essere in quello spazio per 23 ore al giorno – e la tua unica pausa è comunque in una gabbia. Ogni volta che metti piede fuori lo fai ammanettato e incatenato alle caviglie, scortato da due funzionari della prigione“.
Poi finalmente la svolta.
“Il primo giorno che sono sceso dal braccio della morte, sono uscito nel cortile, mi sono tolto le scarpe e ho camminato a piedi nudi sull’erba. Dopo 20 anni, vedevo finalmente il sole. Potrebbe sembrare una sciocchezza, ma in quel momento per me era tutto. Rispetto al modo in cui sono stato trattato nel braccio della morte, in isolamento per 23 ore al giorno, gli 8 anni trascorsi nel regime carcerario normale sono stati molto migliori“.
Tutto questo tempo trascorso ingiustamente in carcere ha fatto maturare in lui una certa dose di rabbia.
“Due anni dopo il mio arresto, mia madre è morta in un incidente d’auto. Fu un colpo durissimo. Solo quando ho iniziato a riprendermi mi sono reso conto che, per andare avanti, avrei dovuto liberarmi della rabbia che avevo verso le persone che mi avevano messo nel braccio della morte. Provare rabbia è umano, fa parte della vita, e dovremmo essere arrabbiati quando ci guardiamo intorno e vediamo l’ingiustizia davanti ai nostri occhi. La cosa che ho imparato è che dobbiamo incanalare quella rabbia per fare qualcosa di utile“.
Oggi Olatushani è libero. Uscito dal carcere 7 anni fa, lavora come attivista per l’associazione Children Defense Fund. Con loro promuove anche forme di arte sul tema della giustizia.
“Da quando sono a casa, ogni giorno incontro persone a cui racconto cosa è la pena di morte. Ho anche portato all’attenzione un’altra questione urgente qui negli Stati Uniti: la detenzione di massa. Negli Stati Uniti si spendono miliardi di dollari per mantenere le persone in carcere, ma molte non dovrebbero essere lì. Alla fine lo sono perché la prigione è un settore così redditizio. Sento la responsabilità di lavorare su questi temi dell’ingiustizia sociale all’interno del sistema di giustizia penale – e la pena di morte è proprio al vertice“.