Nella Striscia di Gaza dal 2 marzo non entra più niente

2 Maggio 2025

Photo by Omar AL-QATTAA / AFP

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Le drammatiche testimonianze raccolte da Amnesty International

Sono trascorsi due mesi da quando, il 2 marzo, Israele ha nuovamente imposto il blocco all’ingresso di aiuti e prodotti indispensabili per tenere in vita la popolazione palestinese della Striscia di Gaza. È l’uso della fame come arma di guerra.
Per Amnesty International questa punizione collettiva costituisce un ulteriore esempio dell’intenzione genocida israeliana di imporre condizioni di vita atte a causare la distruzione fisica dei civili palestinesi.
L’organizzazione per i diritti umani ha raccolto nelle ultime settimane una serie di agghiaccianti testimonianze, a Gaza City e a Beit Lahia, su cosa vuol dire cercare di sopravvivere in queste condizioni.
“Pensavamo che finalmente avremmo potuto piangere i nostri morti in pace, fare un funerale per coloro per cui non era stato possibile e iniziare una nuova viva. Era tutto molto difficile, ma almeno potevamo pensare a qualcosa che non fosse la morte”, ha raccontato un uomo.
Quel “finalmente” è venuto meno il 18 marzo, quando dopo una fragile tregua Israele ha ripreso a bombardare la Striscia di Gaza uccidendo almeno 2325 palestinesi, tra i quali 820 bambine e bambini.
“Quando prendo la barca, so che il rischio di non tornare a casa dalla mia famiglia è elevato, ma non ho altra scelta. La nostra sopravvivenza dipende da quanto riesco a guadagnare vendendo quello che ho preso”, ha commentato un pescatore.
Della estrema scarsità di cibo c’è chi approfitta per accumulare o rubare le poche scorte rimaste così come chi impone commissioni fino al 30 per cento per fornire contanti. Hamas non ha preso alcun provvedimento contro questi sfruttatori e speculatori e ciò ha spinto molte persone, soprattutto a Beit Lahia, a scendere in strada per protestare e chiedere la fine della sua amministrazione.
La maggior parte della popolazione fa affidamento sulle sovraffollate cucine comunitarie, dove le persone sfollate fanno ore di fila per ricevere sì e no un pasto al giorno.
“Non ci chiediamo se il cibo sia nutriente o meno, se sia fresco o no. Mettere qualcosa nello stomaco dei nostri figli è già un lusso. Non voglio che muoiano”, sono le parole di un padre di famiglia.
La crisi alimentare ha un impatto particolarmente devastante sui neonati, sulle madri in allattamento e su quelle in gravidanza. Secondo l’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli aiuti umanitari, il 92 per cento di questi gruppi vulnerabili non raggiunge il minimo necessario del fabbisogno nutrizionale.
I danni alle infrastrutture idriche prodotti dagli attacchi israeliani hanno ridotto anche la disponibilità dell’acqua.
“Mi sveglio con la bocca secca, non riesco neanche a parlare. Per rimediare appena poche bottiglie di acqua potabile, devo mandare mio figlio a fare una fila di ore in un posto lontano da qui. Coi bombardamenti incessanti in corso, non sai mai come andrà a finire. Puoi mandare tuo figlio a prendere l’acqua e può tornarti indietro dentro un sacco per cadaveri. Ogni giorno è così”, ha raccontato una donna.
Mancano il gas da cucina e il legname ha raggiunto costi impossibili. Così si bruciano mondezza e pezzi di nylon, con danni respiratori soprattutto per le donne che preparano il fuoco.
Ovviamente, col sistema sanitario della Striscia di Gaza praticamente distrutto da Israele e il blocco degli aiuti, le cure mediche sono inesistenti. I medici dell’ospedale pediatrico al-Rantissi di Gaza City, che in qualche modo aveva ripreso a funzionare durante la tregua, hanno spiegato cosa significa tutto questo:
“Siamo l’unico ospedale della Striscia di Gaza che fa dialisi alle bambine e ai bambini. Ma non è rimasto più nulla, comprese le fistule arterovenose con cui prepariamo i pazienti alla dialisi. Le bambine e i bambini arrivano emaciati per la mancanza di cibo. Puoi raccomandare quanto vuoi ai genitori di dare loro cibo specifico ma sai benissimo che quella raccomandazione è impossibile da seguire”.