Tempo di lettura stimato: 4'
Com’è noto, il 24 giugno la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato la Polonia, stabilendo che la Legge sulla Corte suprema, entrata in vigore il 3 aprile 2018, viola la normativa dell’Unione europea.
Quella legge, ricordiamolo, ha abbassato l’età pensionabile dei giudici della Corte suprema da 70 a 65 anni, ponendo di fatto circa un terzo dei suoi componenti, compreso il primo presidente, di fronte al rischio di un pensionamento anticipato forzato.
Ma quando è nata questa vera e propria caccia alle streghe contro l’indipendenza dei giudici?
Alla fine del 2015, spiega un rapporto di Amnesty International pubblicato questa mattina.
A quel periodo risale l’adozione di una serie di provvedimenti, legislativi e non, tra i quali la politicizzazione delle nomine dei giudici, il conferimento al ministro della Giustizia del potere esclusivo di congedare e nominare il presidente e i vicepresidenti dei tribunali, la già citata Legge sulla Corte suprema e l’uso della minaccia di procedimenti disciplinari o di perdita del lavoro contro le voci critiche all’interno della magistratura.
La vicenda del giudice Waldemar Żurek, ex portavoce del Consiglio nazionale della magistratura, è emblematica.
Żurek è stato sottoposto a numerosi procedimenti disciplinari e a una campagna diffamatoria sulla tv nazionale. I suoi familiari sono stati minacciati dell’apertura di non meglio precisate indagini. Ha ricevuto mail ed sms contenenti minacce e parole d’odio.
La caccia alle streghe è attiva anche online. Vari profili anonimi su Twitter attaccano i giudici, soprattutto le donne, che criticano il governo e pubblicano informazioni riservate o semi-riservate che paiono provenire da ambienti governativi.
Ci sono poi i giudici che “escono dal seminato“, ad esempio prendendo la parola per difendere il diritto di protesta pacifica: come il giudice Sławomir Jęksa, del tribunale regionale di Poznan, che ha difeso una manifestante finita sotto inchiesta per aver usato “parole offensive” (“Mi sono rotta le scatole della situazione del mio paese“, aveva detto con un linguaggio leggermente più colorito). Il giudice Jęksa è finito sotto inchiesta per aver “espresso opinioni politiche“.
Il rapporto di Amnesty International fornisce ulteriori esempi di persecuzione: come quella di Ewa Maciejewska, una giudice di Łódź, che ha rischiato un provvedimento disciplinare per aver chiesto un parere alla Corte di giustizia dell’Unione europea sulle “riforme” del governo in tema di giustizia; o quella di Alina Czubieniak, che si è presa una reprimenda per aver chiesto il riesame di un ordine di detenzione.
Quest’ultimo caso ha spinto i giudici alla protesta aperta. In oltre 20 tribunali in tutta la Polonia hanno alzato cartelli con la scritta “Non ci faremo intimidire“. La reazione è stata immediata: il 20 aprile il nuovo presidente del tribunale di Olsztyn – uno dei beneficiari delle “riforme” – ha fatto sgomberare dalla polizia un picchetto di solidarietà con i giudici minacciati.
C’è da sperare che dopo il verdetto della Corte di giustizia dell’Unione europea le cose cambieranno. Il punto di non ritorno è vicino ma forse non è stato ancora superato.
Post di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, pubblicato sul blog Le persone e la dignità del Corriere della Sera.