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Il secondo anno della pandemia ha continuato a mettere in evidenza il fallimento di molti governi della regione nel rendere una priorità garantire un accesso adeguato all’assistenza
sanitaria, anche riguardo ai vaccini per il Covid-19, con la particolare eccezione di alcuni paesi dell’area del Golfo.
La libertà d’espressione è rimasta fortemente limitata: i governi della regione, oltre a introdurre ulteriori disposizioni draconiane che hanno reso la libertà di parola un reato, hanno anche
continuato a censurare Internet e a investire in apparati di sorveglianza digitale. I difensori dei diritti umani hanno affrontato azioni penali, periodi di carcerazione, sanzioni amministrative,
minacce e intimidazioni. Le attività delle organizzazioni della società civile sono state criminalizzate. In tutta la regione, le forze di sicurezza non hanno esitato a fare ricorso all’uso eccessivo
della forza per reprimere proteste pacifiche.
Il sovraffollamento e le pessime condizioni sanitarie nelle carceri hanno reso i reclusi della regione ancora più a rischio di contrarre il Covid-19, una situazione che è stata aggravata da un’assistenza medica al di sotto degli standard e dal ricorso a tortura e altri maltrattamenti all’interno dei penitenziari. L’impunità ha prevalso per i membri delle forze di sicurezza, le
milizie e i gruppi armati ragionevolmente sospettati di crimini di diritto internazionale e di gravi violazioni dei diritti umani.
Le parti coinvolte nei conflitti armati hanno commesso crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Le autorità hanno limitato l’accesso agli aiuti umanitari
in Siria e in Yemen, rendendo ancora più critiche le condizioni di sistemi sanitari già vicini al collasso. Altre potenze militari hanno alimentato violazioni attraverso trasferimenti illeciti di
armi e fornitura di supporto militare diretto ai belligeranti.
Le autorità hanno continuato ad arrestare e detenere rifugiati e migranti per periodi indefiniti, spesso senza alcuna base legale. Giordania e Libano ospitavano ancora oltre tre milioni di
rifugiati dalla Siria, ma le espulsioni o i respingimenti sono proseguiti a migliaia a causa di una gamma di fattori. Le autorità della regione non hanno saputo proteggere i lavoratori a basso reddito dalla perdita del lavoro o del salario. I lavoratori migranti erano particolarmente vulnerabili a causa del sistema di lavoro tramite sponsor, conosciuto come kafala, che vincola il permesso
di soggiorno a un contratto d’impiego in molti paesi della regione.
L’impunità per la violenza contro le donne, dalle molestie sessuali ai cosiddetti “delitti d’onore”, è proseguita in maniera incontrollata, senza alcun impegno degli stati ad assicurare i perpetratori alla giustizia. Le autorità hanno duramente represso i diritti delle persone Lgbti, arrestandone molte a causa del loro reale o percepito orientamento sessuale o dell’identità di genere e sottoponendo molti uomini a visite anali forzate. In tutta la regione, i membri delle minoranze religiose ed etniche hanno subìto una radicata discriminazione.
n Egitto, Iran, Libia e Tunisia, le campagne di vaccinazione contro il Covid-19 sono state caratterizzate da mancanza di trasparenza e consultazione, da ritardi nel dare priorità alle categorie a rischio e dall’incapacità di assicurare un accesso ai vaccini equo e paritario ai gruppi marginalizzati, come rifugiati e migranti, sfollati interni, prigionieri, persone senza fissa dimora e altre prive di documenti. L’accesso ai vaccini è stato anche spesso condizionato da considerazioni politiche.
In Iran, i ritardi nella campagna di vaccinazione sono stati in larga parte attribuiti alla decisione assunta dal leader supremo a gennaio di vietare i vaccini prodotti nel Regno Unito e negli Usa; dopo la revoca del divieto ad agosto, le vaccinazioni hanno avuto un’accelerazione fino a coprire a fine anno, con almeno una dose, più dell’80 per cento della popolazione. La Tunisia aveva a metà luglio il secondo tasso pro capite più alto di decessi giornalieri confermati del mondo e una scarsità di vaccini che aveva reso possibile vaccinare fino ad allora soltanto il sei per cento della popolazione. Ma dopo che il presidente Kaïs Saïed ha sciolto il parlamento e si è attribuito poteri eccezionali, la campagna di vaccinazione ha avuto un’accelerazione e a fine anno era stato vaccinato il 46 per cento della popolazione. In un atto di discriminazione istituzionalizzata, Israele ha lasciato i quasi cinque milioni di palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana in Cisgiordania e a Gaza fuori dalla sua campagna di vaccinazione.
Tunisia e Marocco hanno introdotto per tutti l’obbligo di esibire un pass vaccinale per poter accedere ai luoghi di lavoro, pubblici o privati, e per viaggiare all’estero. In Tunisia, il decreto
sul pass vaccinale ha leso altri diritti, consentendo ai datori di lavoro di sospendere i lavoratori non vaccinati, lasciandoli senza paga.
Con l’eccezione degli stati dell’area del Golfo e di Israele, il secondo anno della pandemia ha fatto emergere tutte le carenze dei sistemi sanitari della regione e le problematiche riguardanti
l’accessibilità e la fruibilità di adeguati standard di assistenza medica. In Libano, il governo non ha saputo garantire il rifornimento di carburante alle strutture mediche d’importanza cruciale,
inclusi gli ospedali, o elaborare un piano di protezione sociale, nel pieno del collasso economico in cui era piombato il paese. A novembre, ha revocato i sussidi sui farmaci senza assicurare
l’accesso alle forniture essenziali per coloro che non potevano far fronte all’impennata dei prezzi, inclusi i pazienti affetti da patologie croniche. In Egitto, il bilancio nazionale approvato
a giugno non ha rispettato l’obbligo costituzionale di destinare il tre per cento del pil al settore sanitario e ha tagliato i finanziamenti destinati all’assicurazione sanitaria e ai farmaci.
Il governo siriano ha attivamente contribuito a rendere ancora più complicata la situazione del sistema sanitario nel nord-est della Siria, limitando l’accesso degli aiuti umanitari, con conseguenze drammatiche per i pazienti affetti da cancro e diabete. In Libia, dove i gruppi armati e le milizie hanno continuato ad attaccare operatori medici e umanitari, diverse strutture di isolamento per i pazienti Covid-19 sono state chiuse a causa dei danni subìti o per mancanza di attrezzature e infrastrutture.
In tutta la regione, le autorità hanno continuato ad arrestare, detenere e perseguire persone unicamente a causa del loro pacifico esercizio della libertà d’espressione, spesso servendosi di disposizioni del codice penale dall’interpretazione soggettiva, che criminalizzavano l’“insulto”, per perseguire penalmente qualsiasi opinione critica verso le autorità, anche in relazione alla loro risposta alla pandemia, e per mandare in carcere chi esprimeva critiche. Un tribunale della regione del Kurdistan iracheno ha condannato cinque attivisti e giornalisti a sei anni di carcere
ciascuno, per atti che facevano riferimento al loro utilizzo dei social network e alla professione giornalistica, richiamandosi a disposizioni di legge dalla formulazione vaga, mentre il Governo
regionale del Kurdistan (Kurdistan Regional Government – Krg) ha giustificato procedimenti giudiziari legati alla libertà di parola come necessari per “motivi di sicurezza nazionale”. In un
caso particolarmente eclatante, in Arabia Saudita, Abdulrahman al-Sadhan è stato condannato a 20 anni di carcere e a un divieto di viaggio di pari durata, in relazione ai suoi tweet in cui
aveva criticato le politiche economiche del governo. In Marocco, un tribunale ha condannato Jamila Saadane a tre mesi di reclusione per “avere insultato le autorità”, in relazione ai video
che aveva postato su YouTube in cui accusava le autorità marocchine di coprire reti criminali di prostituzione e tratta di esseri umani. In Algeria, le autorità hanno fatto ricorso in maniera
crescente ad accuse formulate in modo vago in materia di terrorismo, per perseguire persone a causa del loro legittimo attivismo politico o esercizio della libertà di parola.
I governi della regione hanno introdotto ulteriori disposizioni draconiane che hanno criminalizzato la libertà di parola. In Libia, il parlamento ha approvato una legge sui reati informatici
che limita fortemente la libera espressione online, conferendo al governo poteri di sorveglianza e censura, e che punisce con il carcere la divulgazione di contenuti ritenuti “immorali”. In Egitto, il presidente ha ratificato una legge che ha criminalizzato la pubblicazione di informazioni sulle pandemie, con motivazioni formulate in maniera vaga. Le autorità iraniane hanno arrestato
e perseguito sei persone per avere discusso dell’eventualità di intentare una causa legale contro l’incapacità del governo di garantire l’accesso ai vaccini contro il Covid-19. Il ministero della
Salute tunisino ha vietato a tutti gli operatori del settore sanitario pubblico, tranne una selezionata lista, di parlare in pubblico della pandemia da Covid-19, minacciandoli con provvedimenti
disciplinari o azioni penali se non si fossero conformati all’ordine.
I governi della regione hanno continuato a censurare Internet. In Egitto e in Palestina, le autorità hanno ripetutamente bloccato l’accesso a siti web e le autorità iraniane hanno oscurato
piattaforme social.
I difensori dei diritti umani hanno continuato a pagare a caro prezzo la loro audacia. Le autorità hanno cercato di ridurli al silenzio e punirli per il loro lavoro, utilizzando varie tattiche. Le autorità israeliane hanno fatto ricorso a irruzioni, vessazioni giudiziarie e divieti di viaggio contro chi criticava l’occupazione militare, incluso il dipendente di Amnesty International Laith Abu Zeyad, il cui divieto di viaggio è stato confermato dal tribunale distrettuale di Gerusalemme a novembre. Le autorità iraniane hanno chiuso illegalmente le attività produttive o congelato i beni di difensori dei diritti umani e messo in atto rappresaglie contro i loro familiari, compresi figli o genitori. In Egitto, le forze di sicurezza hanno arrestato tre dipendenti dell’Ong Iniziativa egiziana per i diritti personali e, con una decisione inusuale, li hanno rilasciati qualche settimana dopo, in seguito a una campagna lanciata a livello globale per la loro liberazione. Contemporaneamente, le autorità giudiziarie hanno arbitrariamente inserito almeno cinque difensori dei diritti umani nella “lista dei terroristi”, per un periodo di cinque anni. Praticamente tutti i difensori dei diritti umani dell’Arabia Saudita erano in esilio o in carcere. A dicembre, un tribunale ha condannato la difensora dei diritti umani delle donne Loujain al-Hathloul a cinque anni e otto mesi di reclusione.
Le autorità algerine hanno approvato una legislazione che ha ulteriormente limitato la libertà d’associazione e introdotto pene a 14 anni di carcere contro chi riceve sovvenzioni dall’estero per minacciare “gli interessi fondamentali dell’Algeria”. A dicembre, le autorità del Marocco hanno arrestato Maati Monjib e aperto un’indagine nei suoi confronti per accuse relative a sovvenzioni ricevute dall’estero.
A giugno, Nabeel Rajab, presidente del Centro del Bahrein per i diritti umani, messo al bando, è stato rilasciato su cauzione, dopo avere scontato una condanna a quattro anni di carcere per avere pubblicato un post su Twitter, in cui criticava il governo per la situazione dei diritti umani nel paese.
Gli stati devono riconoscere gli obblighi che li vincolano a rispettare e tutelare il diritto di difendere i diritti umani, assicurando che i difensori dei diritti umani siano in grado di lavorare liberamente senza timore di subire arresti e procedimenti giudiziari arbitrari, minacce, attacchi e vessazioni. Le autorità devono rispettare il diritto alla libertà d’associazione ed eliminare le restrizioni arbitrarie contro le organizzazioni della società civile.
Diritto alla privacy
I governi hanno anche continuato a investire in costosi apparati di sorveglianza digitale, come lo spyware Pegasus della società Nso Group, per prendere di mira i difensori dei diritti umani. A luglio, Forbidden Stories, un coordinamento nato dalla collaborazione di giornalisti e mezzi d’informazione, con il supporto tecnico di Amnesty International, ha rivelato l’estensione
dell’utilizzo dello spyware Pegasus nell’intera regione, individuando come potenziali clienti i governi di Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti (United Arab Emirates – Uae) e Marocco. A luglio, un tribunale marocchino ha condannato il giornalista Omar Radi, il quale si era dimostrato spesso critico verso le autorità, a sei anni di reclusione per accuse di spionaggio e stupro, al termine di un processo che non aveva rispettato gli standard internazionali di equità processuale. Era finito nelle maglie della sorveglianza delle autorità del Marocco attraverso una
tecnica d’intrusione nota come “iniezione su rete”, di cui era stato bersaglio il suo iPhone tra gennaio 2019 e gennaio 2020.
I difensori dei diritti umani della regione hanno continuato a pagare a caro prezzo il loro coraggio e le autorità hanno fatto di tutto per imbavagliarli e punirli per il loro lavoro. Le autorità dell’Arabia Saudita hanno ripreso il loro inesorabile giro di vite contro qualsiasi tipo di dissenso, attraverso una lunga serie di condanne: i tribunali hanno condannato cinque difensori a periodi
di carcerazione fino a 20 anni per accuse che facevano esclusivo riferimento al loro lavoro in difesa dei diritti umani, spesso abbinate a divieti di viaggio prolungati. In Israele e Territori
Palestinesi Occupati, il ministero della Difesa israeliano ha categorizzato come “terroriste” sei note organizzazioni della società civile palestinese, sulla base di informazioni segrete che
queste non hanno potuto verificare o contestare, ponendole di fatto fuorilegge e paralizzando la loro attività. Tutto ciò mentre Israele continuava a impedire agli osservatori e agli organismi
d’inchiesta internazionali sui diritti umani, anche delle Nazioni Unite, di entrare nel paese.
In Egitto, i difensori dei diritti umani sono rimasti soggetti a indagini penali politicamente motivate, misure cautelari extragiudiziali, carcerazioni ingiuste, divieti di viaggio, congelamento
dei beni e inserimento arbitrario nella cosiddetta “lista dei terroristi”, di fatto impedendo loro di svolgere qualsiasi attività civica. In Libia, le milizie e i gruppi armati hanno intensificato i loro
attacchi contro attivisti della società civile attraverso rapimenti, minacce e intimidazioni nel periodo precedente alle elezioni presidenziali, che il 22 dicembre sono state rimandate a data
da definire, a due giorni dalla data programmata.
Nonostante i frequenti divieti imposti sui raduni pubblici nel quadro delle misure di contrasto al Covid-19, durante l’anno la gente è scesa ugualmente per le strade per protestare in molti
paesi della regione, in generale per rivendicare diritti socioeconomici. In Tunisia, la polizia ha arrestato più di 1.500 persone durante l’ondata di proteste di gennaio. Movimenti di protesta
si sono susseguiti per tutto l’anno in Algeria, Iraq e Libano, con i manifestanti che hanno subìto arresti, percosse e in alcuni casi anche azioni penali, solo per avere preso parte a manifestazioni pacifiche.
In tutta la regione, le forze di sicurezza hanno fatto ricorso all’illegittimo uso eccessivo della forza per disperdere le proteste, spesso utilizzando forza eccessiva o non necessaria. In Iran, le forze di sicurezza sono intervenute ricorrendo all’uso illegale della forza, sparando tra l’altro proiettili veri e pallini da caccia, per reprimere proteste per lo più pacifiche, e hanno ucciso almeno 11 persone e ferite altre centinaia, che in alcuni casi hanno riportato danni permanenti alla vista. Hanno anche effettuato arresti arbitrari di massa di manifestanti e passanti e impedito l’accesso a Internet durante le proteste. In Iraq, le autorità del Krg hanno arrestato oltre un centinaio di persone per avere preso parte alle proteste; e le forze di sicurezza irachene hanno fatto ricorso all’uso eccessivo della forza, compreso l’utilizzo di proiettili veri, per disperdere le proteste tra gennaio e maggio. In Libano, in un raro episodio occorso a gennaio, i servizi di sicurezza hanno sparato proiettili veri nella città settentrionale di Tripoli, in seguito agli scontri per il collasso economico del paese, e arrestato decine di persone, consegnandole successivamente alle autorità giudiziarie militari. Le autorità giordane hanno reagito con la forza, anche attraverso un massiccio utilizzo di gas lacrimogeni, di fronte ai dimostranti che si erano mobilitati contro il peggioramento delle condizioni economiche e hanno arrestato i membri del sindacato degli insegnanti per impedire loro di partecipare a una marcia di solidarietà.
A maggio e giugno, la polizia israeliana ha fatto ricorso all’uso eccessivo della forza contro i cittadini palestinesi di Israele che manifestavano contro gli sgomberi in atto a Gerusalemme
Est e i raid dell’aviazione israeliana su Gaza; ha effettuato arresti di massa di organizzatori e partecipanti alle proteste. La maggior parte degli arrestati doveva rispondere di reati minori non
correlati alla violenza. Il decesso in custodia di un noto critico delle autorità palestinesi della Cisgiordania ha scatenato proteste in varie città palestinesi, cui le autorità hanno reagito ricorrendo all’uso eccessivo e non necessario della forza. Manifestanti e passanti sono stati arrestati e, secondo le accuse, torturati.
Diritti dei detenuti
In diversi paesi, i prigionieri sono stati tenuti in condizioni di detenzione crudeli e disumane, caratterizzate da sovraffollamento, scarsa ventilazione e igiene e da mancanza di cibo e acqua
sufficienti, situazioni che li rendevano ancora più esposti al rischio di contagio da Covid-19 e altre malattie infettive. Il sovraffollamento era una situazione molto comune, causata da pratiche
di detenzione arbitraria, come detenzione preprocessuale prolungata senza concrete possibilità di appello in Egitto, detenzione indefinita legata allo status di migrazione, come ad esempio in
Libia, o detenzione amministrativa, come in Israele e Palestina. In alcuni paesi, le visite nelle carceri sono state vietate durante i lockdown e in alcuni casi anche al termine di questi, senza
fornire ai prigionieri mezzi alternativi per comunicare con le famiglie.
In tutta la regione, le autorità non hanno provveduto a garantire ai detenuti un adeguato standard di assistenza medica, in alcuni casi deliberatamente al fine di punire il dissenso. Molti governi non hanno provveduto a vaccinare tempestivamente i reclusi: in Iran, la vaccinazione dei prigionieri non è cominciata prima di agosto. In Egitto, alcuni reclusi trattenuti per motivi
politici, compresi i più vulnerabili a causa dell’età avanzata o di problematiche mediche preesistenti, sono stati esclusi dalla campagna di vaccinazione della popolazione carceraria.
È continuata in almeno 18 paesi la prassi di torturare o altrimenti maltrattare i reclusi nei luoghi di detenzione ufficiali e non ufficiali, anche durante le fasi dell’interrogatorio al fine di estorcere
“confessioni” e tramite il ricorso al regime di isolamento in condizioni terribili. Le autorità di Arabia Saudita, Egitto, Iran e Libia hanno regolarmente omesso di aprire indagini sulle cause e le circostanze in cui erano avvenute morti sospette in custodia, in seguito a segnalazioni di tortura, incluso il deliberato diniego di cure mediche. In Libano sono stati segnalati 26 casi di rifugiati siriani, compresi quattro minorenni, trattenuti in relazione ad accuse di terrorismo, che hanno subìto forme di tortura per mano di agenti dell’intelligence militare e altri. Le autorità non hanno provveduto a indagare sulle denunce di tortura neppure quando queste erano emerse dai racconti dei detenuti nelle aule di tribunale. Il noto dissidente politico Nizar Banat è morto mentre era in custodia delle forze di sicurezza preventiva palestinesi, che lo avevano arrestato e torturato a Hebron, nella Cisgiordania meridionale. Un’autopsia ha rilevato fratture, contusioni e abrasioni su tutto il suo corpo.
La legislazione interna di diversi stati della regione continuava a prevedere punizioni corporali giudiziarie come la fustigazione, l’amputazione, l’accecamento, la lapidazione e la crocefissione. In Iran e Libia sono state eseguite fustigazioni.
I paesi della regione hanno mantenuto la pena di morte, anche per reati che non implicavano l’omicidio intenzionale e per atti che sono tutelati dal diritto internazionale, come le relazioni
omosessuali consensuali. In paesi come Arabia Saudita, Egitto, Iran e Libia sono state emesse condanne a morte al termine di processi gravemente iniqui celebrati davanti a tribunali antiterrorismo, militari, d’emergenza o rivoluzionari. In almeno sei paesi sono state effettuate esecuzioni, in alcuni casi anche in segreto e senza un’ultima visita della famiglia in Arabia Saudita e Iran, le autorità hanno messo a morte giovani uomini che erano stati giudicati colpevoli quando avevano meno di 18 anni.
In Tunisia, lo scioglimento del parlamento deciso a luglio dal presidente Kaïs Saïed è stato seguito da 10 nuovi processi di civili davanti a tribunali militari, quattro dei quali per avere criticato il presidente, un aumento significativo rispetto agli anni precedenti. Dieci processi contro membri delle forze di sicurezza, per le violazioni dei diritti umani commesse nel contesto del processo di giustizia transizionale, si sono trascinati per il terzo anno senza raggiungere alcun verdetto.
A livello internazionale, i tentativi di ottenere giustizia hanno registrato alcuni progressi. A ottobre, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha rinnovato il mandato della Missione
di ricerca incaricata di indagare sui crimini di diritto internazionale commessi in Libia a partire dal 2016. Ad agosto è iniziato il processo all’ex funzionario iraniano Hamid Nouri, arrestato in
Svezia per il suo presunto coinvolgimento nei massacri compiuti nelle carceri nel 1988, in base al principio della giurisdizione universale.
Almeno quattro stati europei hanno indagato e perseguito individui sospettati di avere commesso crimini di guerra o altri crimini di diritto internazionale in Siria attraverso i loro tribunali nazionali. A febbraio c’è stata la condanna in Germania di un ex funzionario della sicurezza siriano per crimini contro l’umanità, per concorso diretto e favoreggiamento nella tortura di manifestanti arrestati a Damasco.
Con una manovra del tutto opposta, tuttavia, le intense pressioni esercitate dall’Arabia Saudita e dal Bahrein sono riuscite a non far rinnovare il mandato del Gruppo di eminenti esperti
internazionali e regionali sullo Yemen, l’unico meccanismo investigativo imparziale internazionale sulle violazioni di diritto internazionale umanitario compiute in Yemen.
L’impunità per i membri delle forze di sicurezza, delle milizie e dei gruppi armati ragionevolmente sospettati di avere commesso crimini di diritto internazionale e gravi violazioni dei diritti
umani, tra cui uccisioni, tortura, sparizione forzata e stupro, ha prevalso ancora in tutta la regione. In Libia, le autorità hanno continuato a integrare nelle istituzioni, nominare e promuovere
i comandanti e i membri delle milizie e dei gruppi armati responsabili di abusi, inclusi alcuni che erano sottoposti a sanzioni da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Saif
al-Islam al-Gaddafi, ricercato dall’Icc per il suo ruolo nella violenta repressione delle proteste contro il regime di suo padre nel 2011, è rimasto latitante e si è presentato come candidato alle
elezioni presidenziali. In Iran, Ebrahim Raisi è salito alla presidenza invece di essere indagato per crimini contro l’umanità, legati alle sparizioni forzate ed esecuzioni extragiudiziali di massa
del 1988. In Libano, le autorità hanno ripetutamente ostacolato per tutto l’anno l’indagine sull’esplosione del porto di Beirut del 2020, attraverso numerose manovre che hanno protetto
politici e funzionari dalle convocazioni del giudice inquirente.
Apartheid
Israele ha mantenuto un sistema di oppressione e dominazione sulla popolazione palestinese attraverso politiche e pratiche di frammentazione territoriale, segregazione e controllo, sottrazione di terreni e proprietà e diniego dei diritti economici e sociali, equivalente a una violazione dei diritti umani e al crimine di diritto internazionale di apartheid. Gli atti illegali perpetrati da Israele contro i palestinesi nell’intento di mantenere tale sistema, tra cui trasferimenti forzati, detenzioni amministrative e tortura, uccisioni illegali, diniego dei diritti e delle libertà fondamentali e persecuzione, costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid.
Anni di conflitto armato e insicurezza hanno continuato ad affliggere le vite dei civili in Iraq, Libia, Siria e Yemen, dove livelli fluttuanti di violenza da parte degli attori statali e non statali riflettevano le volubili alleanze sul terreno e gli interessi di sostenitori esterni. I molteplici attori coinvolti nei conflitti hanno commesso crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e delle norme sui diritti umani.
Quasi tutte le parti hanno compiuto attacchi indiscriminati che hanno causato morti e feriti tra i civili, sotto forma di raid aerei, se dotate di un’aviazione militare, e di bombardamenti su
aree popolate attraverso lanci d’artiglieria, mortai e razzi. In Libia, se da un lato il cessate il fuoco sul territorio nazionale ha sostanzialmente tenuto, gli sporadici scontri localizzati tra i
gruppi armati e le milizie in aree abitate hanno provocato vittime tra i civili e danneggiato infrastrutture civili. In Yemen, sia la coalizione guidata dall’Arabia Saudita sia le forze huthi hanno
continuato a effettuare attacchi illegali, uccidendo e ferendo decine di civili, colpendo tra l’altro campi per sfollati interni e obiettivi civili come strutture di distribuzione di generi alimentari. In
Siria, il governo, supportato dalle truppe russe, ha effettuato attacchi nel nord-ovest della Siria che hanno colpito edifici residenziali, mercati e ospedali.
proseguito il trasferimento di armi utilizzate per commettere crimini di guerra e altre violazioni. Russia, Turchia e gli Uae hanno violato l’embargo delle Nazioni Unite sulle armi alla Libia, continuando a inviare combattenti stranieri ed equipaggiamento militare nel paese. Mezzi corazzati prodotti ed esportati dagli Uae sono stati utilizzati nei raid compiuti a ottobre a Tripoli
contro rifugiati e migranti.
Le restrizioni imposte in Libia e Siria all’accesso degli aiuti umanitari hanno continuato a rappresentare una tattica di guerra utilizzata da alcuni attori. Sporadici attacchi politicamente
motivati, lanciati da attori armati contro infrastrutture idrauliche in Libia, hanno avuto un impatto nell’accesso all’acqua di milioni di libici. In Siria, le forze governative hanno intrappolato
migliaia di civili nell’assedio della città di Daraa al-Balad, durato da giugno e settembre, periodo nel quale hanno impedito alle organizzazioni umanitarie di consegnare derrate alimentari,
forniture mediche e altri aiuti salvavita.
Durante il conflitto armato di maggio, Israele e i gruppi armati palestinesi hanno commesso possibili crimini di guerra nella Striscia di Gaza. Negli attacchi stati uccisi almeno 242 palestinesi, inclusi 63 bambini, e altre migliaia sono rimasti feriti. I palestinesi sfollati erano più di 74.000. I gruppi armati palestinesi nella Striscia di Gaza hanno effettuato attacchi illegali,
lanciando indiscriminatamente verso Israele migliaia di razzi, in gran parte intercettati dal sistema di difesa israeliano, ma che hanno comunque causato la morte di 13 persone in Israele.
Le autorità hanno continuato ad arrestare i rifugiati e i migranti e a detenerli indefinitamente, spesso senza alcuna base legale o possibilità di impugnare la legalità della loro detenzione. A
ottobre, le forze di sicurezza libiche e le milizie con base a Tripoli hanno fatto ricorso all’uso illegittimo della forza letale e ad altra violenza per radunare arbitrariamente oltre 5.000 uomini,
donne e bambini di provenienza subsahariana.
In Arabia Saudita, Libia e Yemen, attori statali e non statali hanno continuato a sottoporre rifugiati e migranti a una interminabile serie di crimini, tra cui uccisioni illegali, detenzione arbitraria indefinita in condizioni al limite della sopravvivenza, tortura e altro maltrattamento, stupro e altra violenza sessuale. In Libia, a migliaia sono stati sottoposti a sparizione forzata dopo essere stati fatti sbarcare dalle unità della guardia costiera libica sostenuta dall’Ue, mentre almeno 2.839 sono stati espulsi con la forza al di fuori delle procedure dovute e abbandonati nelle aree di confine con il Ciad, l’Egitto e il Sudan. In Yemen, le autorità defacto huthi hanno arbitrariamente detenuto centinaia di migranti, uomini, donne e bambini, in maggioranza cittadini etiopi e somali, in condizioni deplorevoli per periodi di tempo indefiniti.
A marzo, le autorità hanno risposto a uno sciopero della fame aprendo il fuoco con proiettili veri su un edificio che ospitava 350 migranti, provocando un incendio che ha ucciso 46 detenuti. A giugno, gli Uae hanno arbitrariamente detenuto almeno 375 lavoratori migranti africani, trattenendoli in incommunicado per periodi anche di sei settimane in condizioni deplorevoli e, dopo averli privati di tutti i loro effetti personali, li hanno espulsi. Le truppe governative siriane hanno sottoposto a detenzione arbitraria, tortura e altro maltrattamento, tra cui stupro e altra violenza sessuale, e a sparizione forzata i rifugiati, bambini compresi, ritornati in Siria tra il 2017 e il 2021.
In Qatar, le autorità hanno continuato a non indagare opportunamente sui decessi dei lavoratori migranti, migliaia dei quali nell’ultimo decennio erano morti in maniera improvvisa e
inspiegabile, nonostante i test medici obbligatori richiesti per l’ingresso nel paese. Tale omissione, oltre a precludere qualsiasi possibilità di accertare se le morti fossero correlate al lavoro
svolto, negava anche alle famiglie dei lavoratori defunti l’opportunità di ottenere una forma di compensazione da parte del datore di lavoro o delle autorità. In Egitto, le autorità hanno rimpatriato con la forza in Eritrea 40 cittadini eritrei, senza seguire le procedure dovute o garantire loro l’opportunità di chiedere asilo.
In Iraq, Libia e Siria, decine di migliaia di sfollati interni non hanno potuto ritornare nei loro luoghi d’origine a causa della situazione di insicurezza, per timore di rappresaglie o per mancanza di sevizi essenziali. Hanno anche incontrato ulteriori barriere nell’accesso all’assistenza sanitaria, compresa la vaccinazione contro il Covid-19, all’istruzione, agli alloggi e alle opportunità di impiego. La decisione assunta verso fine anno dal governo iracheno di chiudere quasi tutti i campi per sfollati interni ha reso senza tetto migliaia di persone o le ha costrette a un secondo sfollamento.
In tutta la regione, le autorità non hanno protetto i lavoratori a basso reddito dalla perdita del lavoro o del salario, anche in relazione all’impatto economico della pandemia. I governi hanno
inoltre represso il diritto dei lavoratori di scioperare e non hanno provveduto a tutelare i lavoratori licenziati ingiustamente per avere partecipato agli scioperi. In Egitto, le autorità hanno continuato a penalizzare i lavoratori per avere espresso le loro opinioni o per il loro presunto dissenso. Una nuova legislazione consentiva il licenziamento automatico dei dipendenti pubblici inseriti nella cosiddetta “lista dei terroristi”, mentre un tribunale ha confermato il licenziamento senza indennizzo di un lavoratore di un’azienda pubblica per “avere espresso pubblicamente le sue
opinioni politiche”. Tuttavia, diversi paesi hanno annunciato riforme per migliorare la tutela dei lavoratori migranti, specialmente nell’area del Golfo, dove questi costituivano un’altissima percentuale della forza lavoro.
In tutta la regione, la violenza contro le donne e le ragazze è rimasta per lo più impunita dai sistemi giudiziari penali. I cosiddetti “delitti d’onore” hanno continuato a verificarsi in paesi come Giordania, Iraq, Kuwait e in Palestina e le autorità non sono intervenute per perseguire i perpetratori. In Iran, una proposta di legge per affrontare il fenomeno della violenza contro le donne conteneva alcune apprezzabili disposizioni, come la creazione di case sicure, ma continuava a non definire la violenza domestica come un reato distinto, non criminalizzava lo stupro maritale e il matrimonio precoce e tendeva più alla riconciliazione che alla ricerca della giustizia nei casi di violenza domestica.
Altre modifiche legislative in Iran hanno ulteriormente indebolito i diritti alla salute sessuale e riproduttiva delle donne, limitando gravemente l’accesso alla contraccezione, ai servizi di
sterilizzazione volontaria e alle relative informazioni. In Libia, le autorità non hanno provveduto a tutelare o risarcire donne e ragazze contro lo stupro e altre forme di violenza sessuale e di
genere, oltre che a proteggerle da uccisioni, tortura e privazione illegale della libertà da parte delle milizie, dei gruppi armati e di altri attori non statali. In Yemen, le autorità huthi hanno perseguito una campagna di detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate di donne e ragazze, colpendo in particolare quelle donne che erano percepite sfidare le norme sul genere imposte dagli huthi.
Le donne della regione hanno continuato a subire una radicata discriminazione nella legge, anche in relazione a questioni come divorzio, custodia dei figli, eredità e, in Arabia Saudita e
Iran, anche nell’accesso all’impiego e alle cariche politiche. In Egitto, le proposte di modifica alla normativa interna sullo status personale hanno indebolito ulteriormente l’autonomia delle
donne e mantenuto una serie di disposizioni discriminatorie.
In tutta la regione, le persone Lgbti hanno subìto arresti e azioni penali e talvolta anche visite anali equiparabili a tortura, sulla base del loro reale o percepito orientamento sessuale o dell’identità di genere. I tribunali penali ordinari hanno continuato a trattare le relazioni omosessuali tra adulti consenzienti come un reato, spesso condannando uomini, e in alcuni casi anche
donne, ai sensi di reati contro la pubblica decenza o altre specifiche disposizioni in materia. In Egitto, un tribunale ha ritenuto quattro uomini colpevoli di avere avuto rapporti sessuali omosessuali e li ha condannati a pene variabili dai sei ai nove anni di carcere. Le autorità hanno anche omesso di tutelare le persone Lgbti dalla violenza perpetrata dagli attori non statali. Un giovane che si autoidentificava come gay non binario è stato assassinato in Iran dopo che il certificato di esenzione dal servizio militare, in cui era scritto che aveva una “perversione”, lo aveva indirettamente esposto alla violenza. Due poliziotti in Tunisia hanno insultato e aggredito con violenza l’attivista Lgbti Badr Baabou, presidente del noto gruppo tunisino per i diritti Lgbti Damj, dicendogli che il pestaggio era una rappresaglia per avere sporto denuncia contro la polizia e per “avere difeso le puttane” e le persone gay, riferendosi a queste ultime utilizzando un linguaggio offensivo di stampo omofobico.
In un parziale sviluppo positivo, il parlamento del Marocco ha approvato una legge che stabiliva che il genere assegnato alla nascita ai cosiddetti nati “ermafroditi” poteva essere cambiato successivamente nella vita, ma questa norma non permetteva la transizione alle persone transgender.
I membri delle minoranze religiose hanno continuato a subire una radicata discriminazione nella legge e nella prassi, anche in relazione al loro diritto di professare un culto religioso. In
alcuni paesi della regione, come Egitto e Iran, i membri delle comunità religiose e singoli individui nati da genitori identificati dalle autorità come musulmani sono stati arrestati, perseguiti
e arbitrariamente detenuti per avere professato la loro fede o per l’espressione di culti non autorizzati. In Iran, tre musulmani convertiti al cristianesimo sono finiti in carcere sulla base
di una nuova legislazione che prevedeva fino a cinque anni di reclusione per avere “insultato le religioni divine” o per avere intrapreso “attività di proselitismo”.
Le minoranze religiose in Iran e Libia hanno subìto discriminazioni che limitavano il loro accesso all’impiego, alle cariche politiche e ai servizi essenziali come l’istruzione e l’assistenza sanitaria, e che violavano i loro diritti linguistici e culturali. In Libia, ad al-Kufra, gli studenti della tribù tabu non hanno potuto accedere all’unica università della città, in quanto questa era localizzata in un quartiere controllato da gruppi armati rivali. In Iran, le minoranze etniche sono rimaste sproporzionalmente soggette all’imposizione della pena di morte per accuse dalla formulazione vaga, come “inimicizia contro Dio”.
Le autorità dovrebbero assicurare che l’assistenza sanitaria che forniscono, compresi i vaccini, sia erogata senza discriminazione, che gli operatori medici siano adeguatamente protetti e
che eventuali restrizioni dei diritti adottate nel contesto della lotta alla pandemia siano strettamente necessarie e proporzionate.
I governi devono bloccare ogni indagine o procedimento giudiziario che riguardi l’espressione pacifica, abrogare le soggettive disposizioni riguardanti il reato di “insulto” e depenalizzare la diffamazione. Devono anche riconoscere i loro obblighi di rispettare e garantire il diritto di difendere i diritti umani, assicurando che i difensori dei diritti umani siano in grado di lavorare liberamente, senza timore di subire arresti arbitrari e azioni penali, minacce, attacchi e vessazioni.
I governi devono porre fine all’interminabile serie di crimini contro rifugiati e migranti. Dovrebbero anche rispettare e proteggere il diritto d’asilo, smettere di sottoporre rifugiati emigranti ad arresti e detenzioni arbitrarie unicamente sulla base del loro status di migrazione. Dovrebbero porre fine alle espulsioni dei rifugiati e assicurare che siano protetti contro il refoulement. I governi dovrebbero inoltre estendere le protezioni previste dallo statuto dei lavoratori ai lavoratori migranti, compresi i lavoratori domestici, e abolire il lavoro tramite sponsor, noto come kafala.
Le parti coinvolte nei conflitti armati devono rispettare il diritto internazionale umanitario, in particolare ponendo fine agli attacchi diretti contro i civili o infrastrutture civili e gli attacchi indiscriminati. Le potenze militari devono sospendere i trasferimenti di armi laddove esista un rischio significativo che queste possano essere utilizzate in violazione del diritto internazionale,
come nel caso dei perduranti conflitti in corso nella regione.
Le autorità dovrebbero assicurare che le proprie agenzie di pubblica sicurezza agiscano in conformità con gli standard internazionali sull’uso delle armi da fuoco e dei dispositivi definiti
“meno letali”, indagare sull’utilizzo illecito della forza e chiamare a rispondere gli agenti di sicurezza del loro operato, oltre a difendere il diritto alla libertà di riunione pacifica.