Rapporto 2023 – 2024

Medio Oriente e Africa del nord

Khaled Desoukia/AFP via Getty Images

PANORAMICA REGIONALE SU MEDIO ORIENTE E AFRICA DEL NORD

La devastante escalation di violenza nel conflitto tra Israele e Palestina ha avuto ramificazioni profonde in tutta la regione e nel mondo. Da ottobre, le forze israeliane hanno lanciato un’offensiva su Gaza uccidendo più di 21.000 persone, in maggioranza civili, molte illegalmente, mentre Hamas ha ucciso deliberatamente civili in Israele e trattenuto ostaggi e prigionieri. Le radici profonde del conflitto risiedono nello sfollamento forzato e spossessamento dei palestinesi messo in atto da Israele nel 1948, nell’occupazione militare di Gaza e della Cisgiordania nel 1967, nell’attuale sistema di apartheid praticato da Israele contro i palestinesi e nei 16 anni del blocco illegale sulla Striscia di Gaza occupata.

Gli effetti degli altri perduranti conflitti in corso in Iraq, Libia, Siria e Yemen hanno continuato ad affliggere la vita di milioni di persone, in particolare quelle appartenenti a comunità marginalizzate, come le persone sfollate internamente, rifugiate e migranti e le minoranze etniche; molte di queste sono state private dei diritti più elementari, come quelli al cibo, all’acqua, a un alloggio adeguato, all’assistenza medica e alla sicurezza. Gli attacchi indiscriminati, la distruzione delle infrastrutture, lo sfollamento forzato e la gestione violenta del territorio da parte delle forze di sicurezza, delle milizie e dei gruppi armati sono rimasti impuniti.

I governi regionali non hanno saputo fornire una risposta adeguata agli effetti dell’aumento esponenziale del costo della vita, delle crisi economiche e dei disastri naturali legati al cambiamento climatico, che nell’insieme hanno colpito i diritti umani fondamentali di centinaia di milioni di persone. Coloro che tentavano di esprimere le loro rivendicazioni politiche, sociali ed economiche hanno dovuto confrontarsi con misure punitive, il cui scopo era di mettere a tacere il dissenso. Le autorità hanno detenuto, torturato e perseguito ingiustamente dissidenti e voci critiche, punendoli attraverso l’imposizione di condanne durissime, inclusa la pena di morte, divieti di viaggio, minacce e altre forme di vessazione. Le persone finite nel mirino delle autorità comprendevano giornalisti, commentatori online, difensori dei diritti umani, tra cui coloro che hanno portato avanti campagne per i diritti delle donne, delle persone Lgbti e delle comunità marginalizzate, oltre alle persone impegnate nell’attivismo politico e nelle lotte sindacali. In Egitto, Iran e Giordania, le forze di sicurezza sono ricorse a un uso illegale, e in alcuni casi letale, della forza, oltre che a sparizioni forzate e arresti arbitrari di massa per reprimere le proteste. La maggior parte dei perpetratori di queste violazioni dei diritti umani ha goduto dell’impunità per questi crimini.

La discriminazione per motivi di genere, razza, nazionalità, status legale, appartenenza etnica, orientamento sessuale, identità o espressione di genere, religione e classe economica è rimasta diffusa in tutta la regione e in alcuni paesi era radicata nell’ordinamento legislativo.

Nonostante eventi atmosferici estremi, come siccità e ondate di calore intenso, avessero portato morte e distruzione in varie parti della regione, i governi non hanno saputo intraprendere le azioni necessarie per combattere il cambiamento climatico e il degrado ambientale; diversi hanno, al contrario, annunciato la propria intenzione di espandere la produzione di combustibili fossili, tra cui Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, paese che ha ospitato la Cop28.

 

CONFLITTO TRA ISRAELE E PALESTINA

A ottobre, il conflitto di lunga data tra Israele e Palestina è esploso e i contraccolpi per la politica regionale e il sistema internazionale dei diritti umani sono riverberati in tutta la regione e a livello globale.

Il 7 ottobre, Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno commesso crimini di guerra, comprendenti l’uccisione deliberata di centinaia di civili in Israele, la cattura di ostaggi e il lancio indiscriminato di razzi verso Israele. Conseguentemente, le forze israeliane hanno effettuato pesanti bombardamenti aerei sulla densamente popolata Striscia di Gaza, commettendo crimini di guerra, comprendenti l’uccisione e il ferimento di civili e la distruzione e il danneggiamento di case e altri obiettivi civili, attraverso attacchi indiscriminati e altri attacchi illegali; l’imposizione illegale di un assedio totale sulla già impoverita popolazione civile; e lo sfollamento forzato di quasi 1,9 milioni di palestinesi dalle loro abitazioni.

Nelle successive 12 settimane, una pioggia di bombardamenti e l’offensiva di terra delle forze israeliane hanno ucciso, secondo i dati del ministero della Salute di Gaza, 21.600 palestinesi, un terzo dei quali erano minori, ne hanno feriti molti altri e hanno raso al suolo gran parte delle aree abitate di Gaza. Le crescenti prove emerse, supportate da molteplici testimonianze, immagini satellitari, fotografie e video verificati da Amnesty International e altri, hanno documentato come le forze israeliane abbiano bombardato affollati campi per rifugiati ed edifici residenziali, spazzando via intere famiglie e distruggendo ospedali, chiese, moschee, scuole gestite dalle Nazioni Unite, panetterie, strade e altre infrastrutture cruciali. I generici avvertimenti di Israele di “evacuare” l’area nord di Gaza, anche quando il suo esercito continuava a bombardare aree indicate come sicure nel sud, hanno costituito uno sfollamento forzato della popolazione civile, in violazione del diritto internazionale umanitario.

Migliaia di altri palestinesi sono morti senza motivo come conseguenza del blocco imposto da Israele e dei suoi attacchi contro gli ospedali, che hanno lasciato i 2,2 milioni di abitanti di Gaza senza accesso ad adeguata acqua potabile, cibo, forniture mediche e carburante, e causato il sostanziale collasso del sistema sanitario.

Mentre l’attenzione internazionale era concentrata su Gaza, gli attacchi violenti delle forze armate israeliane e dei coloni ebrei armati sostenuti dallo stato contro i palestinesi della Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est, si sono intensificati, uccidendo 511 persone e costringendo altre migliaia a fuggire dalle loro abitazioni. Tali attacchi sono stati compiuti nell’impunità. Le autorità israeliane hanno inoltre demolito senza alcuna giustificazione militare centinaia di edifici palestinesi, con il conseguente sfollamento di 2.249 persone, e hanno significativamente aumentato il ricorso alla detenzione amministrativa.

Risposta internazionale

Malgrado i livelli sconcertanti dello spargimento di sangue di civili, della distruzione e della sofferenza causate a Gaza e in Israele, la risposta della comunità internazionale si è dimostrata poco incisiva, con alcuni stati, in particolare gli Usa, che hanno continuato a fornire alle parti in conflitto armi utilizzate in flagranti violazioni dei diritti umani. Gli Usa hanno esercitato il loro potere di veto per impedire al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di intraprendere un’azione concreta o di invocare un cessate il fuoco.

Nazioni potenti, come gli Usa e molti stati europei, hanno appoggiato pubblicamente le azioni condotte da Israele, compromettendo il rispetto del diritto internazionale umanitario e la protezione dei civili. La mancanza di volontà della comunità internazionale di far rispettare le norme internazionali sui diritti umani e il diritto internazionale umanitario ha incoraggiato Israele a continuare a perseguire la sua offensiva militare senza alcun riguardo per il devastante bilancio di vittime civili a Gaza.

Il 16 novembre, un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha messo in guardia sul rischio per il mondo di essere testimone dello “sviluppo di un genocidio” a Gaza.

In contrasto con la mancanza di una risposta significativa da parte della comunità internazionale, centinaia di milioni di persone in tutto il mondo hanno aderito alle manifestazioni di massa che si sono svolte di settimana in settimana in solidarietà con la popolazione di Gaza e per chiedere un cessate il fuoco e la fine del blocco.

Manifestazioni come queste si sono svolte anche a livello regionale, tra cui nei paesi che avevano normalizzato le relazioni con Israele e dove protestare in pubblico era vietato o pericoloso. In Egitto, dove sono state decine di migliaia le persone scese per le strade a manifestare, le autorità hanno effettuato decine di arresti arbitrari. In Bahrein, i manifestanti sono stati circa un migliaio. Manifestazioni a larga partecipazione si sono svolte anche in Algeria, Iran, Iraq, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Siria, Tunisia e Yemen, oltre che in Cisgiordania.

L’11 novembre, durante un inedito summit della Lega araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica, i leader hanno condannato l’aggressione israeliana contro la Striscia di Gaza, i crimini di guerra e “i massacri barbari… e disumani” perpetrati dal governo di occupazione. A dicembre, il Sudafrica si è appellato alla Corte internazionale di giustizia chiedendo l’apertura di un procedimento contro Israele relativamente alla sua violazione a Gaza degli obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio del 1948.

Nel frattempo, crescevano le preoccupazioni per una possibile propagazione del conflitto. Dal 7 ottobre, le ostilità transfrontaliere tra Israele e Hezbollah e altri gruppi armati nel sud del Libano hanno provocato la morte di almeno quattro civili israeliani e almeno altri 20 civili morti in Libano. Tra il 10 e il 16 ottobre, le forze israeliane hanno sparato proiettili di artiglieria contenenti fosforo bianco durante operazioni militari condotte lungo il confine meridionale del Libano. Amnesty International ha chiesto che l’attacco condotto su Dhayra fosse indagato come un possibile crimine di guerra. Il 13 ottobre, l’artiglieria israeliana ha colpito il sud del Libano uccidendo un giornalista e ferendone altri sei. Lo stesso mese, raid israeliani in Siria hanno ucciso otto soldati e colpito l’aeroporto di Aleppo per quattro volte. A partire dal 9 ottobre, l’esercito israeliano ha attaccato il valico di Rafah al confine con l’Egitto numerose volte e in una di queste ha ferito alcune guardie di frontiera egiziane.

A livello globale, sono aumentate le espressioni online di odio e razzismo contro le comunità palestinesi ed ebraiche, tra cui istigazione alla violenza, ostilità e discriminazione, con alcuni governi che hanno represso i diritti alla libertà d’espressione e riunione per soffocare le manifestazioni e gli slogan a favore della Palestina.

Ai sensi del diritto internazionale umanitario, tutte le parti in conflitto devono proteggere i civili e gli obiettivi civili. Amnesty International chiede un cessate il fuoco immediato per impedire ulteriori perdite di vite civili, permettere agli aiuti umanitari salvavita di raggiungere coloro che sono in una disperata situazione di bisogno a Gaza e l’apertura di indagini internazionali indipendenti sui crimini di diritto internazionale commessi da tutte le parti. Chiede anche il rilascio immediato di tutti gli ostaggi civili trattenuti da Hamas e di tutti i palestinesi detenuti arbitrariamente da Israele. La comunità internazionale dovrebbe imporre un embargo totale sulle armi dirette a tutte le parti in conflitto.

 

ALTRE VIOLAZIONI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO

Altri conflitti armati di lunga data in corso nella regione e le loro conseguenze hanno devastato la vita di milioni di persone, con tutte le parti in conflitto, alcune anche sostenute da governi stranieri, che hanno commesso crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario.

Nel 12° anno del conflitto in Siria, tutte le parti e i loro alleati hanno compiuto attacchi illegali, uccidendo civili e distruggendo infrastrutture d’importanza vitale. Il governo siriano, sostenuto dalle forze governative russe, ha lanciato molteplici offensive di terra illegali e, a partire da ottobre, ha intensificato gli attacchi aerei contro i civili e gli obiettivi civili nel nord- ovest della Siria, uccidendo decine di civili e sfollandone altre decine di migliaia.

In Libia, le milizie e i gruppi armati hanno condotto attacchi illegali e utilizzato armi con effetti ad ampio raggio in quartieri residenziali, uccidendo e ferendo civili e distruggendo infrastrutture civili durante le ostilità. Migliaia di persone sono rimaste arbitrariamente detenute in relazione al conflitto o per le loro affiliazioni tribali o politiche. In Yemen, nonostante un’attenuazione del conflitto armato e degli attacchi transfrontalieri, tutte le parti belligeranti hanno commesso impunemente attacchi illegali e uccisioni.

Tutte le parti in conflitto devono rispettare il diritto internazionale umanitario, in particolare mettendo fine agli attacchi diretti contro i civili e le infrastrutture civili e agli attacchi indiscriminati. I governi stranieri devono interrompere i trasferimenti di armi laddove sussista un rischio prevalente che siano usate per commettere o facilitare gravi violazioni delle norme internazionali sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario.

 

REPRESSIONE DEL DISSENSO

In tutta la regione, le autorità hanno continuato a violare i diritti delle persone che esprimevano opinioni critiche o di dissenso, anche online, verso il governo o le forze di sicurezza, o riguardanti i diritti umani, le politiche economiche, gli affari internazionali o tematiche sociali ritenute “immorali”.

In Iran, all’indomani della rivolta Donna Vita Libertà del 2022, le autorità hanno intensificato la loro azione repressiva contro le donne e le ragazze che sfidavano l’obbligo di indossare il velo e i maltrattamenti dei familiari di manifestanti e passanti uccisi illegalmente, che chiedevano verità e giustizia. Hanno inoltre arrestato decine di giornalisti, avvocati e difensori dei diritti umani. Le autorità hanno interrotto l’accesso a Internet e alle reti di telefonia mobile durante le proteste, impedito lo svolgimento di manifestazioni di massa di livello nazionale in occasione dell’anniversario di settembre della rivolta del 2022, eseguendo arresti, e hanno soffocato proteste locali di dimensioni più contenute, ricorrendo all’uso illegale della forza e ad arresti di massa.

In Egitto, nel periodo che ha preceduto le elezioni presidenziali di dicembre, dalle quali erano stati esclusi accreditati candidati dell’opposizione, le autorità hanno intensificato i loro tentativi di screditare esponenti politici d’opposizione e i loro sostenitori, i parenti dei dissidenti all’estero, avvocati, giornalisti e persone critiche verso la situazione dei diritti umani nel paese e la gestione della crisi economica da parte delle autorità, oltre che verso il ruolo dei militari. Le forze di sicurezza hanno continuato a sottoporre i dissidenti a sparizione forzata, tortura, procedimenti giudiziari ingiusti e a detenzione arbitraria.

Alcuni stati hanno utilizzato la legislazione sul terrorismo o accuse inventate per mettere a tacere l’opposizione e infliggere pesanti sanzioni a chi esprimeva critiche.

In Algeria, le autorità hanno perseguito attivisti e giornalisti che avevano espresso opinioni critiche, principalmente online, e chiuso testate giornalistiche. Le autorità irachene hanno attaccato il diritto alla libertà d’espressione e tentato di introdurre leggi e regolamenti al fine di soffocare tale diritto.

In Tunisia, le autorità hanno intensificato la loro azione repressiva sul dissenso, utilizzando in maniera crescente accuse infondate di cospirazione e terrorismo contro figure di alto profilo dell’opposizione e altre voci critiche; hanno inoltre utilizzato frequentemente una nuova legge draconiana contro i reati informatici. I membri del partito d’opposizione Ennhada sono stati presi di mira in maniera particolare, con molti dirigenti trattenuti in detenzione preprocessuale prolungata. Oltre 50 attivisti politici sono stati indagati in relazione ad accuse inventate di “cospirazione”, mentre decine di persone che protestavano per temi sociali e ambientali sono state perseguite ingiustamente.

In Arabia Saudita, le autorità hanno preso incessantemente di mira coloro che percepivano come dissidenti. La Corte penale specializzata (Specialized Criminal Court – Scc), istituita per processare reati in materia di terrorismo, ha giudicato e condannato persone a lunghi periodi di carcerazione al termine di processi gravemente iniqui, unicamente per avere esercitato i loro diritti alla libertà d’espressione o associazione, compresa la pacifica espressione online delle loro opinioni. La camera d’appello della Scc ha confermato il verdetto di colpevolezza di Salma al-Shehab per reati in materia di terrorismo, inclusa la pubblicazione di tweet che “turbano l’ordine pubblico, destabilizzano la sicurezza della società e […] dello stato”, per aver pubblicato sui social media post a sostegno dei diritti delle donne. È stata condannata a 27 anni di carcere seguiti da un divieto di viaggio della durata di 27 anni.

Durante la conferenza annuale sul clima (Cop28), ospitata dagli Emirati Arabi Uniti (United Arab Emirates – Uae), è cominciato un nuovo processo di massa che ha visto imputati oltre 80 cittadini emiratini, tra i quali figuravano difensori dei diritti umani e prigionieri di coscienza già in carcere da un decennio, per accuse di terrorismo inventate. Almeno 26 prigionieri di coscienza rimanevano trattenuti negli Uae per la pacifica espressione delle loro convinzioni.

A parte i cortei pro-Palestina, la perdurante o intensificata repressione comune a gran parte della regione ha impedito lo svolgimento di proteste di massa e le poche che si sono svolte ugualmente hanno visto uso eccessivo della forza e arresti.

Centinaia di migliaia di israeliani hanno partecipato a manifestazioni contro le proposte di riforma del sistema giudiziario, alle quali le autorità di polizia hanno risposto occasionalmente con arresti arbitrari e uso eccessivo della forza. Nel frattempo, l’ordine militare 101 continuava a reprimere il diritto dei palestinesi di protestare pacificamente e di riunirsi in Cisgiordania.

In Giordania, le autorità hanno soffocato in maniera crescente le pacifiche attività di attivisti politici, giornalisti, lavoratori, membri di partiti politici, persone Lgbti e altre ai sensi di norme repressive dalla formulazione vaga. Una nuova legislazione contro i reati informatici ha represso il diritto di ogni individuo di esprimere le proprie opinioni online. Almeno 43 persone erano indagate o perseguite penalmente in relazione all’espressione online delle loro opinioni, ai sensi di disposizioni dal contenuto repressivo e vago. Nove sono state processate dalla Corte per la sicurezza di stato, un tribunale militare.

I governi devono rispettare i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica, assicurando tra l’altro che giornalisti, difensori dei diritti umani e attivisti possano godere di questi diritti senza subire vessazioni, violenze e persecuzioni giudiziarie, e rilasciare le persone detenute per avere esercitato questi diritti.

 

DINIEGO DEI DIRITTI ECONOMICI E SOCIALI

Un’inflazione in crescita, i fallimenti dei governi e altri fattori, con ricadute a livello locale, regionale e internazionale, hanno continuato a esercitare un’intensa pressione sui prezzi dell’energia e dei beni alimentari in tutta la regione, colpendo in maniera particolarmente dura i paesi meno ricchi di risorse e più popolosi, alcuni dei quali erano ancora in fase di ripresa dalla crisi economica generata dalla pandemia da Covid-19 e da altri fattori. Tutto ciò ha lasciato milioni di persone in una condizione di insicurezza alimentare e compromesso i loro diritti all’acqua, alla salute e a uno standard di vita adeguato. Le più penalizzate da questa situazione sono state le persone che già subivano molteplici forme di discriminazione, come le donne, i lavoratori a basso reddito e le persone rifugiate, migranti e sfollate internamente.

La crisi economica del Libano si è ulteriormente aggravata, con un tasso d’inflazione alle stelle e con i prezzi dei beni alimentari più che triplicati. Molte persone, in particolare quelle appartenenti a gruppi marginalizzati, non potevano permettersi di acquistare farmaci o non avevano accesso ad altri beni essenziali come acqua potabile, cibo sufficiente, energia e altri prodotti di base e servizi d’importanza vitale. La crisi economica dell’Egitto ha avuto conseguenze devastanti per i diritti economici e sociali. Il governo ha stanziato circa la metà del bilancio nazionale per il ripagamento del debito e non è stato in grado di adempiere all’obbligo sancito dalla costituzione di destinare una quota della spesa pubblica al settore sanitario e a quello dell’istruzione, o di adeguare i propri programmi di protezione sociale. Tutto ciò, sommato con un’inflazione in costante crescita ha gettato altri milioni di persone in una condizione di povertà.

In molti paesi, compresi quelli con fiorenti economie basate sulla produzione di petrolio e gas naturale, i governi non hanno saputo proteggere i lavoratori a basso reddito dagli abusi sul lavoro e hanno negato a chi lavorava il diritto di aderire a sindacati indipendenti e di scioperare. Negli stati del Golfo, i lavoratori a basso reddito hanno continuato ad affrontare condizioni caratterizzate da estremo sfruttamento, discriminazione, alloggi gravemente inadeguati, abusi fisici e psicologici, trattenimento del salario da parte dei datori di lavoro e limitato accesso all’assistenza sanitaria.

In Qatar, nonostante la campagna di alto profilo sui lavoratori migranti in relazione con la Coppa del mondo di calcio 2022 ospitata nel paese, i lavoratori migranti hanno continuato ad affrontare un’ampia gamma di abusi, come sottrazione del salario, lavoro forzato e limitazioni al cambio di lavoro e mancato accesso ad adeguati strumenti di rivendicazione dei propri diritti e a forme di indennizzo. Il salario minimo del Qatar continuava a essere troppo basso per garantire ai lavoratori uno standard di vita adeguato o per affrancarli dal vincolo del debito, causato dal pagamento di commissioni illegali per le assunzioni. In Qatar, così come in altri stati della regione, i lavoratori domestici, per lo più donne, dovevano affrontare condizioni di lavoro particolarmente pesanti ed erano ad alto rischio di subire abusi fisici e psicologici, comprese aggressioni a sfondo sessuale.

Decine di lavoratori migranti nepalesi assunti a contratto per lavorare nei magazzini di Amazon in Arabia Saudita sono stati sottoposti a violazioni dei diritti umani, compreso un trattamento configurabile come traffico di esseri umani per fini di sfruttamento sul lavoro. Erano stati ingannati riguardo ai termini e alle condizioni del lavoro, i loro salari erano stati trattenuti ed erano alloggiati in sistemazioni totalmente inadeguate. Alcuni erano stati abusati verbalmente o fisicamente, in particolare quando si lamentavano per le loro condizioni.

I governi devono intervenire in maniera urgente per sviluppare misure di protezione sociale in grado di tutelare tutti, compresi i gruppi marginalizzati, contro gli effetti avversi delle crisi e chiedere sforzi coordinati a livello internazionale per garantire i diritti alla salute, al cibo e a uno standard di vita adeguato. I governi devono tutelare il diritto dei lavoratori di organizzarsi in sindacati indipendenti e di protestare ed estendere le tutele dello statuto dei lavoratori ai lavoratori migranti.

 

DISCRIMINAZIONE

Donne e ragazze

In tutta la regione, donne e ragazze hanno continuato a essere discriminate nella legge e nella prassi, anche in relazione ai diritti alla libertà di movimento, espressione, autonomia corporea, eredità, divorzio, cariche politiche e opportunità d’impiego. La violenza di genere è rimasta un fenomeno comune e i perpetratori hanno goduto dell’impunità. In alcuni paesi, questo tipo di violenza è aumentata e le protezioni per le donne si sono indebolite. In Algeria e Iraq, la legge permette agli stupratori di evitare di essere perseguiti sposando la loro vittima. Il Marocco ha respinto le raccomandazioni formulate durante l’Upr che lo sollecitavano a criminalizzare lo stupro maritale. I cosiddetti “delitti d’onore” contro le donne e altri femminicidi sono rimasti frequenti in Algeria e Tunisia. Nella regione del Kurdistan iracheno, il governo regionale ha permesso ai perpetratori di violenza domestica di evitare di essere perseguiti e non ha protetto adeguatamente le sopravvissute.

In Iran, le autorità hanno intensificato la loro azione repressiva contro le donne e le ragazze che sfidavano l’obbligo di indossare il velo, introducendo nuove politiche fortemente lesive dei loro diritti economici, culturali, civili e politici. Le misure punitive comprendevano: l’invio a circa un milione di donne di sms che minacciavano la confisca dei loro veicoli e il deferimento di migliaia di donne alla magistratura. In Yemen, le autorità de facto huthi e i gruppi armati hanno imposto alle donne restrizioni di movimento e vietato loro di viaggiare senza essere accompagnate da un tutore maschile o senza poter esibire una certificazione che attestasse per iscritto la sua approvazione. In Egitto, le autorità non sono state capaci di adottare misure adeguate in grado di prevenire la violenza sessuale e di genere perpetrata da attori statali e non statali, in un contesto di crescenti notizie di donne uccise per mano di un familiare o di corteggiatori respinti. Per contro, le donne sono state perseguite penalmente per aver denunciato apertamente la violenza sessuale o per motivazioni legate alla “morale”.

Persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate

In tutta la regione, persone sono state arrestate e perseguite a causa del loro orientamento sessuale o dell’identità di genere e molte hanno ricevuto pesanti condanne per essere state giudicate colpevoli di relazioni sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso. Gli attacchi contro le persone Lgbti si sono intensificati in Iraq, Giordania, Libano, Libia e Tunisia. In Libano, le autorità hanno incitato alla violenza contro le persone gay e lesbiche. In risposta,

18 organizzazioni dell’informazione hanno pubblicato una dichiarazione congiunta contro la repressione delle libertà e una coalizione di 15 organizzazioni libanesi e internazionali ha sollecitato le autorità a stralciare immediatamente le proposte legislative contro le persone Lgbti.

In Libia, l’Agenzia per la sicurezza interna di Tripoli, così come i gruppi armati e altre milizie, hanno continuato ad arrestare individui a causa del loro reale o percepito orientamento sessuale e/o dell’identità di genere, e hanno mandato in onda le loro “confessioni” ottenute sotto tortura. Le autorità irachene hanno ordinato ai mezzi d’informazione di sostituite il termine “omosessualità” con “devianza sessuale”. In Tunisia, i tribunali hanno emesso condanne a due anni di carcere ai sensi delle disposizioni vigenti che criminalizzano le relazioni sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso. In Giordania, alcuni parlamentari hanno capeggiato una campagna anti-Lgbti, che chiedeva di criminalizzare le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso, innescando un’ondata d’odio e minacce contro gli individui Lgbti e i sostenitori dei loro diritti.

Comunità razziali, etniche, nazionali e religiose

In tutta la regione, i membri di minoranze e comunità razziali, etniche, nazionali e religiose hanno subìto discriminazioni nella legge e nella prassi, anche in relazione ai loro diritti di professare un culto, di godere di uguali opportunità di accesso all’impiego e all’assistenza sanitaria e di vivere liberi dalla persecuzione e altre gravi violazioni dei diritti umani.

Israele ha mantenuto una forma estrema di discriminazione, equivalente a un sistema di apartheid, attraverso l’oppressione e la dominazione del popolo palestinese, tramite strategie di frammentazione, segregazione e controllo territoriale, esproprio di terreni e proprietà e diniego dei diritti economici e sociali. Per arrivare a questo, Israele ha sistematicamente commesso un’ampia gamma di violazioni dei diritti umani, come trasferimenti forzati, detenzioni amministrative, tortura, uccisioni illegali, privazione di diritti e libertà fondamentali e azioni giudiziarie.

In Iran, le minoranze etniche, tra cui arabi ahwazi, turchi azeri, baluci, curdi e turkmeni, hanno subìto una discriminazione diffusa, che ha limitato il loro accesso all’istruzione, al lavoro, a un alloggio adeguato e agli incarichi politici. Anche cristiani, dervisci di Gonabadi, ebrei, adepti del culto di Yaresan e musulmani sunniti hanno affrontato discriminazioni nella legge e nella prassi. In particolare, i membri della minoranza baha’i hanno subìto violazioni diffuse e sistematiche.

Leggi discriminatorie in vigore in Kuwait negavano ai bidun (una popolazione nativa apolide) l’accesso ai servizi pubblici gratuiti, compresa l’istruzione, un diritto invece garantito ai cittadini kuwaitiani. In Egitto, le autorità hanno arrestato e perseguito penalmente membri di minoranze religiose e persone che non abbracciavano culti religiosi autorizzati dallo stato. In Libia, le comunità tribali tabu e tuareg, cui continuava a essere negato il rilascio di carte d’identità nazionali a causa della discriminazione nei loro confronti, hanno incontrato difficoltà ad accedere ai servizi di base, in un contesto caratterizzato da razzismo e xenofobia.

I governi devono agire urgentemente per mettere fine alla discriminazione di genere e alla violenza contro donne e ragazze e persone Lgbti, e assicurare alla giustizia i responsabili di tali crimini. Devono inoltre depenalizzare le relazioni sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso. I governi devono porre fine alla discriminazione sulla base di razza, nazionalità, appartenenza etnica, religione, genere, orientamento sessuale e identità ed espressione di genere, e implementare riforme legislative e politiche al fine di assicurare uguali diritti senza alcuna discriminazione e proteggere, promuovere e garantire il diritto alla libertà di pensiero, coscienza, religione e culto.

 

DIRITTI DELLE PERSONE RIFUGIATE, MIGRANTI E SFOLLATE INTERNAMENTE

I perduranti conflitti in Libia, Siria e Yemen hanno prodotto enormi flussi di sfollati interni costretti a lottare ogni giorno per sopravvivere. La maggior parte di loro ha incontrato difficoltà ad accedere ai servizi, forme di discriminazione, diniego del diritto di tornare a casa o rappresaglie quando cercava di farvi ritorno senza autorizzazione, oltre a restrizioni e tagli delle forniture di aiuti umanitari vitali.

In Iraq, almeno 1,1 milioni di persone rimanevano sfollate internamente a causa del conflitto con il gruppo armato Stato islamico, con la maggioranza che viveva ancora in una situazione di precarietà a sei anni dalla proclamazione della fine del conflitto. Ad aprile, le autorità hanno chiuso, senza preavviso o coordinamento con gli attori umanitari, l’ultimo campo per sfollati interni rimasto operativo.

In Siria, i circa 2,9 milioni di sfollati interni nel nord-ovest continuavano a dipendere completamente per la loro sopravvivenza dall’assistenza umanitaria coordinata dalle Nazioni Unite e, nel 2023, almeno altre 118.000 persone sono state sfollate a causa degli scontri armati. Il governo siriano ha limitato la fornitura di aiuti essenziali diretti ai civili, comprese molte persone sfollate internamente, che vivevano nelle aree a predominanza curda nella regione settentrionale di Aleppo, già al limite della sopravvivenza a causa della grave carenza di carburante e aiuti umanitari.

I disastri naturali, i cui effetti sono stati esacerbati dalla cattiva gestione dei governi, dall’impunità e dal controllo delle milizie sul territorio, hanno aggravato i problemi delle persone sfollate e hanno aumentato di centinaia di migliaia il loro numero. I terremoti che hanno colpito la Turchia sudorientale e la Siria settentrionale il 6 febbraio hanno causato lo sfollamento di circa 400.000 famiglie in Siria e lasciato quasi nove milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria immediata. Molte famiglie avevano perso la loro casa ed erano costrette a vivere in ripari di fortuna o nei campi allestiti. I terremoti hanno inoltre aumentato i bisogni umanitari di tutti coloro che erano stati sfollati in precedenza nella Siria nordoccidentale, compreso un numero crescente di persone che vivevano in tende con scarso o inesistente accesso ad acqua, servizi igienici e assistenza medica.

I diritti dei rifugiati e migranti hanno subìto una batosta in tutta la regione. In Libano, che secondo le stime ospitava 1,5 milioni di siriani e più di 200.000 altri rifugiati, l’incapacità del governo di mitigare gli effetti della crisi economica in cui era piombato il paese ha lasciato circa il 90 per cento dei rifugiati siriani in una condizione di povertà estrema, senza accesso a cibo sufficiente e servizi di base. Una crescente retorica anti rifugiati, in alcuni casi alimentata dalle stesse autorità locali e da politici, ha contribuito a creare un ambiente sempre più ostile verso i rifugiati. Ad aprile e maggio, le forze armate libanesi hanno fatto irruzione nelle case dei rifugiati siriani, espellendoli quasi tutti dal paese; a settembre hanno effettuato irruzioni nei campi per rifugiati allestiti nella regione della Bekaa e nella città di Arsal e hanno confiscato beni personali. In Giordania, due milioni di palestinesi e circa 750.000 altri rifugiati vivevano in una situazione di povertà e in progressivo peggioramento, in parte a causa del taglio degli aiuti internazionali.

A partire da luglio, le autorità tunisine hanno espulso con la forza migliaia di migranti neri, richiedenti asilo e rifugiati, compresi minori, abbandonandoli nel deserto lungo i confini con la Libia e l’Algeria, lasciandoli senza cibo o acqua, in condizioni che avrebbero causato almeno 28 morti. Le autorità, incluso il presidente Saïed, hanno istigato livelli senza precedenti di violenza razzista contro i migranti neri. La polizia ha utilizzato gas lacrimogeni contro migranti, richiedenti asilo e rifugiati che avevano organizzato un sit-in di protesta davanti agli uffici delle Nazioni Unite di Tunisi, e ha torturato diversi dei fermati. In Libia, rifugiati e migranti, compresi quelli intercettati in mare dalle unità della guardia costiera supportata dall’Ue e dai gruppi armati e rimandati forzatamente in Libia, sono stati sottoposti a detenzione arbitraria e indefinita, tortura e altro maltrattamento, estorsione e lavoro forzato. Oltre 22.000 sono stati forzatamente e sommariamente espulsi verso il Ciad, l’Egitto, il Niger e il Sudan.

L’Arabia Saudita ha rimandato forzatamente centinaia di migliaia di persone nei loro paesi d’origine nel contesto di un ampio giro di vite contro i migranti privi di documenti. In Iran, i circa cinque milioni di afgani residenti stabilmente nel paese hanno subìto una discriminazione diffusa, che rendeva tra l’altro per loro complicato accedere ai servizi essenziali. Le autorità hanno minacciato di espellere le persone afgane entrate nel paese irregolarmente e hanno vietato loro di abitare e/o di lavorare in alcune province.

I governi devono intraprendere iniziative concrete per assicurare il rientro delle persone sfollate internamente nei loro luoghi di origine su base volontaria, in sicurezza e dignità. Devono inoltre mettere fine alla detenzione arbitraria dei rifugiati e migranti sulla base del loro status di migrazione e proteggerli contro la tortura e altro maltrattamento durante la detenzione, il refoulement e le espulsioni di massa.

 

PENA DI MORTE

Gran parte dei paesi della regione ha mantenuto la pena capitale e i tribunali hanno emesso condanne a morte, anche per reati o atti protetti dal diritto internazionale, come relazioni sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso e apostasia, e per accuse inventate o dalla formulazione oltremodo generica sporte contro i dissidenti. I paesi che hanno effettuato esecuzioni sono stati: Arabia Saudita, Egitto, Iran e Iraq. Se, da un lato, in Egitto il numero delle esecuzioni è diminuito, in Iran è invece aumentato, e in Libia c’è stata una ripresa delle esecuzioni, sospese dal 2011. Un tribunale saudita ha emesso per la prima volta una condanna a morte per attività condotte sui social media.

I governi della regione devono stabilire immediatamente una moratoria ufficiale sulle esecuzioni nella prospettiva di arrivare all’abolizione della pena di morte.

 

CRISI CLIMATICA

Il 2023 ha messo in luce le terribili conseguenze del cambiamento climatico a livello regionale, comprese situazioni di grave scarsità di acqua e condizioni atmosferiche estreme che hanno colpito in maniera crescente aree e popolazioni vulnerabili; hanno inoltre messo in luce l’alto livello di impreparazione di molti paesi di mitigarne gli effetti.

Il ciclone Daniel ha causato il simultaneo crollo di due dighe che non ricevevano manutenzione da decenni nella città di Derna, in Libia. Questo ha portato alla formazione di flussi d’acqua che hanno causato un bilancio di 4.540 morti, 8.500 dispersi e oltre 44.000 sfollati. Ondate di caldo senza precedenti in Algeria hanno innescato almeno 140 incendi in cui hanno perso la vita circa 34 persone e altre 1.500 sono state sfollate. Il Marocco ha registrato un’ondata di caldo senza precedenti con temperature che, ad Agadir, hanno superato i 50°C. Iraq e Siria hanno affrontato periodi di estrema siccità.

Invece di invertire la rotta, gli stati regionali hanno generalmente mantenuto un approccio immutato verso la produzione di combustibili fossili, contribuendo al probabile sforamento dell’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto la soglia di 1,5°C, e non hanno saputo fornire risposte adeguate al degrado ambientale. L’Iraq ha registrato proventi da record derivanti dalle vendite di petrolio e ha annunciato di avere in programma la perforazione di nuovi pozzi al fine di aumentare la produzione petrolifera. L’Arabia Saudita ha annunciato l’intenzione di incrementare la sua produzione di circa un migliaio di barili al giorno entro il 2027 e di aumentare la sua produzione di gas naturale del 50 per cento entro il 2030.

Ha continuato a giocare un ruolo di guastafeste nelle trattative internazionali per la graduale eliminazione dei combustibili fossili, bloccando un’iniziativa del G20 volta a ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili; è stata inoltre uno dei più forti oppositori dell’inserimento della clausola sull’eliminazione dei combustibili fossili nel testo conclusivo della Cop28. Il Kuwait ha confermato i suoi piani di incrementare la produzione di combustibili fossili almeno fino al 2035 e la compagnia petrolifera nazionale Kuwait Oil Company ha annunciato a giugno che avrebbe speso oltre 40 miliardi di dollari Usa entro il 2028 per ampliare la produzione petrolifera. Il Qatar ha aumentato la sua produzione di gas naturale liquefatto. L’Oman ha invece varato un programma per la riduzione delle emissioni di carbonio incentrato su obiettivi di neutralità carbonica per il 2030, 2040 e 2050, benché abbia continuato a produrre e a dipendere da fonti di energia non rinnovabile.

La scelta degli Uae come sede della Cop28 si è rivelata particolarmente controversa, se non altro perché la compagnia petrolifera statale, la Abu Dhabi National Oil Company, tra i maggiori produttori mondiali di idrocarburi e guidata dal presidente stesso della Cop28, Sultan Al Jaber, aveva annunciato l’intenzione di aumentare esponenzialmente la sua produzione di combustibili fossili.

A dicembre, alla Cop28, gli stati hanno per la prima volta concordato un testo finale che menzionava espressamente i combustibili fossili, ma che non ha raggiunto gli obiettivi necessari e che tra l’altro lasciava aperte delle scappatoie che permettevano ai produttori di combustibili fossili e agli stati di continuare con il loro attuale approccio. Gli stati, compresi quelli maggiormente responsabili della crisi climatica, non hanno inoltre messo a disposizione finanziamenti adeguati per aiutare altri stati nella transizione verso un’energia pulita o ad adattarsi al dannoso impatto della crisi climatica, e hanno offerto un contributo finanziario a malapena sufficiente a rendere operativo il nuovo Fondo per le perdite e i danni.

I governi devono adottare interventi urgenti per mitigare la crisi climatica e mantenere il riscaldamento globale entro il limite di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, riducendo tra l’altro le loro emissioni di carbonio (in particolare quelle maggiormente responsabili delle emissioni storiche) e ponendo fine al finanziamento dell’estrazione dei combustibili fossili. Tutti gli stati che dispongono delle risorse necessarie dovrebbero aumentare in modo significativo il loro contributo finanziario per i paesi che hanno bisogno di essere aiutati a realizzare misure di mitigazione e adattamento coerenti con i diritti umani.

 

TORTURA E ALTRO MALTRATTAMENTO

Tortura e altro maltrattamento sono rimasti fenomeni diffusi nei luoghi di detenzione ufficiali e non ufficiali, con livelli particolarmente allarmanti in Arabia Saudita, Egitto, Iran, Libia e Siria, dove hanno in alcuni casi determinato decessi in custodia rimasti impuniti; mentre in paesi come Algeria, Iraq, Israele e Territori Palestinesi Occupati, Libano, Marocco, Palestina e Uae continuavano a emergere notizie del loro utilizzo. La tortura è stata spesso inflitta per estorcere “confessioni” e i metodi utilizzati comprendevano percosse, scosse elettriche, esecuzioni simulate, sospensione in posizioni contorte, stupro e altra violenza sessuale, diniego di cure mediche e prolungati periodi di isolamento.

In Egitto, tortura e altro maltrattamento sono rimasti metodi utilizzati regolarmente nelle carceri, nei commissariati di polizia e nelle strutture gestite dall’agenzia per la sicurezza interna e comprendevano il deliberato diniego di cure mediche, prolungati periodi di isolamento, bombardamento con luci abbaglianti, telesorveglianza costante e negazione delle visite dei familiari. In Iran e in Libia, la tortura e altro maltrattamento sono rimaste pratiche diffuse e sistematiche, con “confessioni” forzate ottenute sotto tortura, filmate e diffuse pubblicamente. In quasi tutti i casi documentati nella regione, le autorità non hanno provveduto a indagare adeguatamente le accuse di tortura e i decessi avvenuti in circostanze sospette in custodia. L’informatore Mohamed Benhlima ha riferito a un tribunale algerino a luglio che gli agenti di pubblica sicurezza lo avevano torturato, tra l’altro denudandolo, tenendolo legato mani e piedi e versandogli addosso acqua gelida, e di essere stato anche molestato sessualmente, percosso e minacciato. Il giudice non ha disposto alcuna indagine su queste accuse e lo ha condannato a sette anni di carcere.

I governi devono assicurare indagini indipendenti, imparziali ed efficaci sulle accuse di tortura e altro maltrattamento e mettere in atto tutte le misure necessarie per impedire tali crimini.

 

IMPUNITÀ

Gli stati della regione hanno continuato a favorire l’impunità per i perpetratori di gravi violazioni dei diritti umani, mettendo in luce tutte le lacune di sistemi giudiziari nazionali profondamente viziati.

In Egitto è prevalsa l’impunità per i crimini di diritto internazionale e altre gravi violazioni dei diritti umani compiute nel 2023 e nell’ultimo decennio, comprese le uccisioni illegali di almeno 900 persone durante la violenta repressione dei sit-in di protesta dei sostenitori del deposto presidente Mohamed Morsi, ad agosto 2013. In modo del tutto simile, in Libano, l’inchiesta sull’esplosione del porto di Beirut del 2020, in cui erano rimaste uccise almeno 236 persone, rimaneva in stallo da dicembre 2021, a causa delle molteplici cause giudiziarie intentate dai politici implicati nella tragedia contro i giudici inquirenti. In Iran, nessun pubblico ufficiale è stato chiamato a rispondere per le uccisioni illegali, le sparizioni forzate, la tortura e altro maltrattamento, compresi stupri e altre forme di violenza sessuale, e altri crimini di diritto internazionale o gravi violazioni dei diritti umani, compiute nel 2023 o negli anni precedenti.

La comunità internazionale non è riuscita ad assicurare l’accertamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani. La Missione indipendente delle Nazioni Unite di accertamento dei fatti (Fact-Finding Mission – Ffm) in Libia ha pubblicato a marzo il suo rapporto finale concludendo che “esistono fondati motivi per ritenere che le forze di sicurezza statali e i gruppi delle milizie armate abbiano commesso un’ampia gamma di crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. Nonostante ciò, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite non ha rinnovato il mandato della Ffm. In Libia permanevano preoccupazioni per l’imparzialità, l’indipendenza, la trasparenza e l’efficacia delle indagini annunciate dalla procura generale di Tripoli sulla morte e distruzione causata dal ciclone Daniel, che avrebbero tra l’altro dovuto esaminare l’incapacità delle autorità libiche e di quelle che esercitavano il controllo de facto del territorio di tutelare il diritto alla vita della popolazione.

I governi devono combattere l’impunità attraverso indagini approfondite, indipendenti, imparziali, efficaci e trasparenti sulle violazioni dei diritti umani e i crimini di diritto internazionale e assicurare i sospetti perpetratori alla giustizia affinché siano giudicati in processi equi davanti a tribunali civili.

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