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STATO DI LIBIA

Capo di stato: Mohamed al-Menfi

Capo di governo: controverso (Abdelhamid al-Debibah, capo del governo di unità nazionale; Fathi Bashagha, capo del governo di stabilità nazionale)

Le milizie, i gruppi armati e le forze di sicurezza hanno continuato a detenere arbitrariamente migliaia di persone. Decine di manifestanti, avvocati, giornalisti, voci critiche e attivisti sono stati rastrellati e sottoposti a tortura e altro maltrattamento, sparizione forzata e “confessioni” videoregistrate. Le milizie e i gruppi armati hanno fatto ricorso all’uso illegale della forza per reprimere proteste pacifiche in tutto il paese. Decine di persone sono state arrestate, perseguite e/o condannate a lunghe pene detentive o a morte per le loro convinzioni religiose; per la loro reale o percepita identità di genere e/od orientamento sessuale; o per il loro attivismo Lgbti. Le autorità, le milizie e i gruppi armati hanno imposto rigide restrizioni allo spazio civico e all’accesso delle agenzie umanitarie alle comunità colpite e hanno intrapreso campagne diffamatorie contro organizzazioni internazionali e libiche per i diritti. Le milizie e i gruppi armati hanno ucciso e ferito civili e distrutto proprietà di civili durante scontri sporadici e localizzati. L’impunità è rimasta diffusa e le autorità hanno finanziato le milizie e i gruppi armati responsabili di abusi. Donne e ragazze hanno subìto radicate forme di violenza e discriminazione. Le minoranze etniche e le persone sfollate internamente hanno incontrato ostacoli nell’accesso all’istruzione e all’assistenza medica. Le unità della guardia costiera libica, supportata dall’Ue, e le milizie dell’Autorità di supporto alla stabilità hanno intercettato in mare migliaia di rifugiati e migranti e li hanno riportati con la forza in Libia, dove sono stati detenuti.

I migranti e rifugiati detenuti sono stati sottoposti a tortura, uccisioni illegali, violenza sessuale e lavoro forzato.

 

CONTESTO

L’impasse politica della Libia si è accentuata e durante l’anno non è stato trovato un accordo per fissare le nuove date delle elezioni parlamentari e presidenziali, originariamente previste per dicembre 2021. A marzo, il parlamento ha votato unilateralmente per emendare la dichiarazione costituzionale e ha nominato un nuovo governo, il governo di stabilità nazionale (Government of National Stability – Gns), con l’appoggio delle Forze armate arabe libiche (Libyan Arab Armed Forces – Laaf), un gruppo armato che ha mantenuto il controllo effettivo su larga parte della Libia orientale e meridionale. Altri attori politici e militari non hanno riconosciuto l’iniziativa, menzionando irregolarità procedurali, e hanno continuato a sostenere il governo di unità nazionale (Government of National Unity – Gnu), che ha mantenuto il controllo della capitale Tripoli, nonostante i tentativi delle milizie allineate con il Gns di cacciarlo.

A giugno e luglio, le Laaf hanno imposto un blocco petrolifero, che ha determinato interruzioni nelle forniture di elettricità e proteste popolari. Lo hanno successivamente revocato soltanto dopo avere raggiunto un accordo con il Gnu, per sostituire il capo dell’ente petrolifero nazionale.

La mancata adozione di un bilancio nazionale e dell’unificazione delle istituzioni finanziarie ha causato ritardi nei pagamenti dei salari dei dipendenti pubblici e interruzioni dei servizi governativi.

A settembre, l’ufficio di revisione dei conti della Libia ha pubblicato un rapporto relativo al 2021, che rivelava una diffusa corruzione e una cattiva gestione di miliardi di dinari libici, a ogni livello delle istituzioni governative libiche.

 

DETENZIONE ARBITRARIA, PRIVAZIONE ILLEGALE DELLA LIBERTÀ E PROCESSI INIQUI

Le milizie, i gruppi armati e le forze di sicurezza hanno continuato a detenere arbitrariamente migliaia di persone; alcune erano trattenute da oltre 11 anni senza accusa né processo. Tuttavia, per tutto l’anno, il Gnu e le Laaf hanno annunciato il rilascio di decine di detenuti in relazione al conflitto e altri trattenuti per motivi politici.

Decine di persone sono state arbitrariamente arrestate sulla base della loro reale o percepita affiliazione politica o tribale, o delle critiche contro potenti milizie o i gruppi armati, e sottoposte a sparizione forzata o trattenute in incommunicado per periodi anche di 11 mesi. Alcune sono state tenute in ostaggio a scopo di riscatto.

A maggio, miliziani dell’Autorità di supporto alla stabilità (Stability Support Authority – Ssa) hanno rapito Ahmed al-Daykh, un dipendente dell’ufficio di revisione dei conti, davanti al suo luogo di lavoro, dopo che aveva sollevato preoccupazioni per la corruzione interna allo stato. Lo hanno sottoposto a sparizione forzata per otto giorni, rilasciandolo successivamente senza accusa.

Civili e altri accusati di violazioni dei diritti umani sono stati processati da tribunali militari in procedimenti giudiziari gravemente iniqui. A giugno, la corte d’appello di Tripoli ha trasferito alla procura militare 82 imputati accusati di coinvolgimento nelle uccisioni avvenute nel carcere di Abu Salim nel 1996, con la motivazione che il reato aveva avuto luogo in un ambiente militare e che gli accusati erano membri delle forze armate. Molti degli imputati erano stati torturati o altrimenti maltrattati in seguito al loro arresto, dopo la caduta del regime di Muammar al-Gaddafi nel 2011, e le loro “confessioni” estorte sotto tortura erano state utilizzate nei procedimenti giudiziari contro di loro.

Le milizie e i gruppi armati hanno rapito e intimidito avvocati, procuratori e giudici.

Gli avvocati che rappresentavano civili processati da tribunali militari della Libia orientale hanno riferito di avere subìto vessazioni e intimidazioni da parte di giudici e procuratori militari. A Bengasi, l’Agenzia per la sicurezza interna (Internal Security Agency – Isa), un gruppo armato, ha arrestato l’avvocato Adnan al-Arafi a maggio e lo ha detenuto per 13 giorni, dopo che aveva querelato un giudice militare.

I processi penali erano celebrati all’interno della base di Mitiga, a Tripoli, controllata dalla milizia Apparato di deterrenza per combattere il crimine organizzato e il terrorismo (Deterrence Apparatus for Combating Organized Crime and Terrorism – Dacot), in un clima in cui avvocati e giudici temevano di subire rappresaglie per avere sollevato o indagato su affermazioni relative a detenzione arbitraria, tortura e altro maltrattamento ad opera dei miliziani del Dacot.

 

TORTURA E ALTRO MALTRATTAMENTO

Le milizie e i gruppi armati hanno sistematicamente torturato e altrimenti maltrattato i detenuti nell’impunità. Percosse, scosse elettriche, esecuzioni simulate, fustigazione, annegamento simulato, sospensione in posizioni contorte e violenza sessuale sono stati denunciati dai parenti e dai prigionieri trattenuti dal Dacot, dall’Ssa e dall’Isa a Tripoli, dalla Forza operativa congiunta (Joint Operations Force – Jof) di Misurata, oltre che dai gruppi armati come l’Isa, Tariq Ben Zeyad (Tbz) e la 128ᵃ brigata in Libia orientale.

I detenuti erano trattenuti in condizioni crudeli e disumane, caratterizzate da sovraffollamento, diniego di assistenza medica e mancanza d’igiene, mancanza di esercizio fisico e cibo sufficiente.

In tutto il territorio libico si sono contati decine di decessi in custodia, collegati a resoconti di tortura, diniego di cure mediche e malnutrizione.

Le milizie e i gruppi armati hanno in larga parte ignorato un decreto approvato dal ministero dell’Interno a maggio, che vietava la pubblicazione sui social network delle “confessioni” dei detenuti.

La legislazione libica ha mantenuto l’imposizione di punizioni corporali, come la fustigazione e l’amputazione.

 

LIBERTÀ D’ASSOCIAZIONE

Le milizie e i gruppi armati hanno rapito decine di operatori della società civile e attivisti, nel quadro di una campagna di diffamazione intrapresa dai ministri del Gnu e dalle milizie affiliate contro le associazioni per i diritti, libiche e internazionali, accusate di diffondere l’ateismo e l’omosessualità e di attaccare i “valori” libici. Gli attori umanitari internazionali e libici hanno riferito un aumento delle già rigide restrizioni al loro lavoro, come il diniego di accedere alle strutture di detenzione e alle comunità che necessitavano di aiuti, arresti, convocazioni a scopo di interrogatorio e altre forme di vessazione.

A luglio, un tribunale di Bengasi ha deciso di sospendere temporaneamente il decreto n. 286/2019 sulla regolamentazione delle Ong, ma la sovvenzione e le attività delle Ong presenti sul territorio libico sono rimaste soggette a rigide restrizioni.

 

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E RIUNIONE

Per tutto l’anno, le milizie e i gruppi armati hanno rapito, arbitrariamente detenuto e/o minacciato decine di attivisti, giornalisti e altri, per avere esercitato i loro diritti alla libertà d’espressione e riunione pacifica.

Tra febbraio e marzo, almeno sette uomini sono stati arrestati unicamente per avere espresso pacificamente le loro opinioni e/o per la loro affiliazione al gruppo della società civile Tanweer. Le autorità giudiziarie hanno ammesso agli atti processuali le videoregistrazioni delle loro “confessioni”, estorte sotto tortura mentre erano detenuti dall’Isa a Tripoli, senza accesso agli avvocati. Sei sono stati giudicati colpevoli di “avere insultato e offeso la religione islamica” e di “utilizzo improprio delle reti Internet”, e poi condannati a pene comprese tra uno e 10 anni di carcere al termine di processi iniqui.

Tra maggio e agosto, nelle città di Sebha, Sirte, Bengasi, Misurata, Beida e Tripoli, le milizie e i gruppi armati hanno fatto ricorso alla forza illegale, compresa forza letale, per disperdere le persone che partecipavano a proteste generalmente pacifiche contro la presa del potere e il deterioramento della situazione economica. Almeno due uomini sono stati uccisi e altre decine sono rimasti feriti. Attori armati hanno arbitrariamente detenuto gli attivisti per periodi anche di 14 settimane a Misurata e Bengasi, per avere appoggiato gli appelli alla protesta sulle piattaforme social, oltre che giornalisti in relazione alla loro attività di copertura delle proteste.

A marzo, l’Isa-Sirte ha rapito il giornalista Ali al-Refawi per avere seguito la cronaca delle proteste a Sirte e lo ha consegnato al Tbz, che lo ha trattenuto fino a luglio senza accusa né processo.

 

ATTACCHI ILLEGALI

Benché il cessate il fuoco nazionale in vigore da ottobre 2020 abbia in generale tenuto, le milizie e i gruppi armati hanno violato il diritto internazionale umanitario durante i loro sporadici e localizzati scontri armati, compiendo tra l’altro attacchi indiscriminati e distruzione di infrastrutture civili e proprietà private.

Ad agosto, i violenti scontri tra le milizie nei quartieri densamente popolati di Tripoli hanno causato 32 morti, compresi tre bambini e altri civili, e provocato danni a decine di case e altre proprietà, oltre che ad almeno quattro strutture mediche. A settembre, un bambino e almeno altre sei persone, per lo più civili, sono stati uccisi durante gli scontri tra milizie rivali nella città di al-Zawyia.

Diversi paesi, tra cui Russia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti, hanno violato l’embargo sulle armi stabilito dalle Nazioni Unite nel 2011, mantenendo in Libia combattenti stranieri e attrezzatura militare.

Le mine terrestri e gli ordigni inesplosi fatti brillare hanno causato in tutto il paese la morte di almeno 39 persone.

 

IMPUNITÀ

Le autorità e i membri delle milizie e dei gruppi armati responsabili di crimini di diritto internazionale hanno goduto di una pressoché totale impunità. Le autorità hanno continuato a finanziare gruppi armati e milizie responsabili di abusi senza alcun controllo e a integrare i loro membri nelle istituzioni statali. A novembre, il Gnu ha nominato ministro dell’Interno ad interim Emad Trabulsi, comandante della milizia Agenzia per la pubblica sicurezza, nonostante il comprovato coinvolgimento della sua milizia in crimini contro rifugiati e migranti.

Le autorità libiche non hanno avviato alcuna procedura per assicurare alla giustizia i miliziani della Jof, per l’esecuzione extragiudiziale del ventisettenne Altayeb Elsharari a marzo, e hanno continuato a fornire fondi pubblici alla milizia.

Per tutto l’anno, nelle città di Tarhuna e Sirte sono state scoperte fosse comuni, che si riteneva contenessero i resti di individui uccisi rispettivamente dai gruppi armati al-Kaniyat e Stato islamico. Le indagini in corso sulle uccisioni compiute da al-Kaniyat nel periodo in cui controllava Tarhuna, fino a giugno 2020, sono state caratterizzate da dubbi circa la loro indipendenza, efficacia e trasparenza. Non hanno portato ad alcuna azione penale in processi equi davanti a tribunali ordinari, nonostante sufficienti prove ammissibili del coinvolgimento nei reati di alcune persone.

A luglio, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha rinnovato il mandato della Missione di accertamento dei fatti per indagare sui crimini di diritto internazionale commessi in Libia dal 2016, per un ultimo periodo, non prorogabile, di nove mesi.

 

VIOLENZA SESSUALE E DI GENERE

Le autorità libiche non hanno provveduto a proteggere donne, ragazze e persone Lgbti da uccisioni, tortura e privazione illegale della libertà da parte delle milizie, dei gruppi armati e di altri attori non statali. Donne e ragazze hanno incontrato ostacoli nell’ottenere giustizia nei casi di stupro e altra violenza sessuale, rischiando anche di essere perseguite penalmente per relazioni sessuali al di fuori del matrimonio, considerate in Libia un reato, e di subire la vendetta dei perpetratori contro chi sporgeva denuncia.

A settembre, la trentaduenne Kholoud al-Ragbani è stata uccisa dopo avere chiesto il divorzio. Le autorità non hanno provveduto a indagare sul suo femminicidio o a garantire che fosse fatta giustizia.

 

DISCRIMINAZIONE

Minoranze etniche e popolazioni native

Nel sud della Libia, alcuni membri delle comunità tribali tabu e tuareg, specialmente coloro che non avevano carte d’identità nazionali a causa delle discriminatorie leggi e disposizioni che disciplinano il diritto alla nazionalità libica, hanno incontrato ostacoli nell’accesso ad alcuni servizi essenziali, come l’assistenza medica e l’istruzione. Alcuni sono rimasti in una condizione di apolidia, a causa del rifiuto delle autorità di riconoscere la loro nazionalità libica.

Donne e persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate

A ottobre, il Gnu ha emanato il decreto n. 902/2022, che ha concesso ai figli nati da madre libica e padre non libico di accedere all’istruzione pubblica e all’assistenza sanitaria, senza tuttavia garantire loro gli stessi diritti di cittadinanza dei figli nati da padre libico e madre non libica.

Tra febbraio e maggio, la polizia e i combattenti della milizia Dacot hanno arrestato almeno 26 persone per avere praticato il cross-dressing a Tripoli, Misurata e Zliten. La maggior parte di loro è stata rilasciata senza accusa.

Persone sfollate internamente

Oltre 143.000 persone sono rimaste sfollate internamente al paese, alcune anche da più di 10 anni. Migliaia di famiglie provenienti da Bengasi, Derna e altre parti della Libia orientale non erano più riuscite a ritornare nei loro luoghi d’origine, per timore di subire le rappresaglie dei gruppi armati affiliati alle Laaf e a causa della distruzione delle loro proprietà. Hanno continuato a dover affrontare rinvii o dinieghi, o superare farraginose procedure burocratiche o affidarsi a conoscenze personali per ottenere documenti ufficiali indispensabili per accedere a servizi come istruzione e assistenza sanitaria, o per riscuotere stipendi e pensioni erogati dallo stato. In centinaia hanno dovuto cavarsela da soli in sistemazioni precarie prese in affitto a Tripoli e Misurata.

Migliaia di abitanti della città di Tawergha, dalla quale erano stati sfollati con la forza nel 2011, non erano più riusciti a rientrare nelle loro case per mancanza dei servizi essenziali. Quelli che erano riusciti a tornare hanno riferito della mancanza di alloggi adeguati, elettricità, acqua potabile o forme di indennizzo per le proprietà saccheggiate o distrutte dalle milizie con base a Misurata.

A maggio, miliziani dell’Ssa hanno ordinato ai residenti di Tawergha sfollati ad al-Fallah, l’unico campo per persone sfollate internamente di Tripoli, di andarsene spontaneamente per non essere sgomberati con la forza.

 

DIRITTI DI RIFUGIATI E MIGRANTI

Rifugiati e migranti sono stati sottoposti a diffuse e sistematiche violazioni dei diritti umani e agli abusi compiuti dalle autorità statali, dalle milizie e dai gruppi armati, che hanno agito nell’impunità. Molti hanno perso la vita in mare nelle acque territoriali libiche o sul suolo libico, intraprendendo viaggi rischiosi nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Le unità della guardia costiera libica, supportate dall’Ue, e la milizia Ssa hanno messo in pericolo le vite di rifugiati e migranti che tentavano di attraversare il mar Mediterraneo, aprendo il fuoco o danneggiando deliberatamente in altro modo le loro imbarcazioni, causando la perdita di vite umane (cfr. Italia). Il 18 febbraio, miliziani dell’Ssa si sono resi responsabili della morte di un uomo e del ferimento di altri, durante l’intercettazione di un’imbarcazione che trasportava migranti e rifugiati nel Mediterraneo.

Almeno 19.308 rifugiati e migranti sono stati intercettati e riportati con la forza in Libia, dove a migliaia sono stati detenuti a tempo indefinito nei centri amministrati dalla direzione per la lotta alla migrazione illegale (Directorate for Combating Illegal Migration – Dcim), dall’Ssa e altre milizie. L’accesso a questi centri da parte della Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie e di difesa dei diritti umani è stato negato o era possibile soltanto consegnare gli aiuti e fornire servizi, ma non parlare in privato con i detenuti. Migliaia di altri rifugiati e migranti sono stati sottoposti a sparizione forzata o risultavano dispersi dopo lo sbarco.

Le milizie dell’Ssa hanno arbitrariamente detenuto migliaia di migranti e rifugiati nel centro di detenzione di al-Mayah e li hanno sottoposti a percosse, lavoro forzato, stupro e altra violenza sessuale, compresa prostituzione forzata.

Al 27 novembre, la Dcim continuava a detenere almeno 4.001 migranti e rifugiati. Erano tenuti in condizioni disumane, in un contesto in cui erano diffusi tortura e altro maltrattamento, estorsione di somme di riscatto per ottenere la libertà e diniego di cure mediche adeguate. Funzionari della Dcim hanno riferito ad Amnesty International, durante un incontro a Tripoli a febbraio, della chiusura da parte della Dcim di tutti i quattro centri di detenzione di Tripoli tranne uno, ma i centri che risultavano chiusi sono rimasti operativi e gestiti dalle milizie, incluso il famigerato centro di detenzione di al-Mabani, controllato dalla milizia Agenzia per la pubblica sicurezza.

I gruppi armati sotto il comando delle Laaf hanno espulso migliaia di migranti e rifugiati verso l’Egitto, il Sudan, il Ciad e il Niger al di fuori delle procedure dovute e li hanno costretti a salire a bordo di camion senza sufficienti quantitativi di cibo o acqua.

Dei 43.000 rifugiati e richiedenti asilo registrati presso l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, al 15 ottobre, soltanto 693 erano stati reinsediati o evacuati fuori dalla Libia. Almeno 1.255 migranti sono stati rimpatriati nei loro paesi d’origine tramite l’Organizzazione internazionale per la migrazione, tra preoccupazioni per la natura volontaria della loro decisione di tornare in patria, in linea con il principio del consenso libero e informato.

 

PENA DI MORTE

L’ordinamento libico ha mantenuto la pena di morte per un’ampia gamma di reati, non limitati all’omicidio intenzionale. Sono state emesse nuove condanne a morte, anche da tribunali militari della Libia orientale al termine di processi gravemente iniqui. Non ci sono state esecuzioni.

A settembre, un tribunale di Misurata ha condannato a morte Diaa al-Din Balaaou per il reato di apostasia.

 

FALLIMENTO NELL’AFFRONTARE LA CRISI CLIMATICA E IL DEGRADO AMBIENTALE

La Libia non ha comunicato il suo Ndc come stato parte dell’Accordo di Parigi. Gli esperti hanno valutato il paese come estremamente vulnerabile al cambiamento climatico, date le sue limitate risorse idriche, il suolo arido e la siccità, e scarsamente preparato a fronteggiare il degrado ambientale dopo anni di conflitto e insicurezza.

 

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