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“Scesi dal treno per andare a prendere un panino e all’improvviso una violenta scarica di botte mi colpì. Venni travolto dai colpi dei manganelli. Ricordo i manganelli girati al contrario che mi colpivano alla testa e affondavano nel cranio. Poi il buio”.
Questa è la storia di Paolo Scaroni, un tifoso del Brescia che il 24 settembre del 2005 è stato vittima di una violenta aggressione delle forze di polizia che lo ha tenuto in coma per i due mesi successivi e lo ha reso invalido al 100% per tutta la vita.
Quel giorno Paolo, ultrà del Brescia che oggi ha 41 anni, era andato ad assistere a una partita di calcio, il ritorno a casa fu per lui fatale.
Dopo la partita, i bresciani vennero scortati in stazione, dove si scatenò l’inferno: tre cariche della celere, violentissime.
Paolo ne uscì con la testa fracassata: salvato dagli amici, si rialzò, vomitò e svenne. Alle 19,45 entrò in coma.
“Mi assalirono da dietro, mi buttarono a terra e lì fu la mia morte“, ricorda Paolo.
“Una volta a terra ero inerme, c’era una mano che mi dava colpi. Ricordo i laccetti dei manganelli girati al contrario che mi battevano davanti agli occhi e i colpi che affondavano nel cranio“.
“Quel giorno mi ricordo erano tutti in divisa però tutti avevano il volto coperto da un foulard, oltre ad avere il casco e lo scudo davanti, quindi nessuno di loro era riconoscibile”.
In 13 anni Paolo non è riuscito ad avere giustizia: i nomi dei suoi aggressori non sono mai emersi, i colpevoli che hanno distrutto la sua vita e i suoi ricordi non sono stati riconosciuti perché – appunto – non erano identificabili da nessun elemento e quella sera avevano il volto coperto.
Quanto accaduto a Paolo conferma, ancora una volta, come una maggiore trasparenza non possa che facilitare l’accertamento delle responsabilità e prevenire episodi gravissimi come questo, oltre che accrescere la fiducia complessiva nell’operato degli agenti.
Sosteniamo con forza l’introduzione di ogni strumento, a partire dai codici identificativi fino alle bodycam, per raggiungere tali obiettivi.
“Il risveglio dal coma fu traumatico: il mio fisico era completamente menomato”, racconta Paolo.
“Mi sono ritrovato a fare i conti con la mia nuova vita e a dover ripartire da zero: ho dovuto rimparare a parlare a camminare, a far tutto. Ho subito due interventi dolorosissimi ai piedi per riuscire a camminare di nuovo. Dopo sei mesi ho ripreso a camminare”.
Paolo amava correre e andare in montagna, da allora non ha potuto più farlo. Non ha potuto più lavorare e, cosa più grave, ha perso circa 20 anni di ricordi.
“Ho perso tutta l’adolescenza, il periodo più felice che una persona possa vivere“.
“Ho il terrore quotidiano di incontrare una pattuglia della polizia, perché ho paura che mi facciano di nuovo del male“, spiega Paolo.
“Ho perso il processo di primo grado perché il giudice diceva che i poliziotti erano tutti vestiti uguale e non erano riconoscibili, proprio perché mancava questo benedetto numero identificativo“.
Paolo fa riferimento al codice identificativo che, se apposto sulle divise o sui caschi dei poliziotti, avrebbe permesso facilmente il riconoscimento dei suoi aggressori.
“Hanno anche tagliato le immagini del video del mio pestaggio e solo grazie a una poliziotta che è stata dalla mia parte fin dall’inizio delle indagini ha scoperto che c’era stato questo taglio. Ha avuto il coraggio di andare contro tutti”.
Oggi Paolo ha paura ed è sfiduciato. Sa che le cose sarebbero potute andare diversamente: “Quando vedo la polizia per strada sento un senso di impotenza e di paura incredibili“.
Assolti in primo grado, pur con formula dubitativa, per non aver commesso il fatto, il 25 giugno, i giudici della Corte d’appello di Venezia, hanno confermato l’assoluzione per insufficienza di prove degli agenti del reparto Mobile della Questura di Bologna accusati di aver massacrato di botte il tifoso del Brescia.