Photo Credit: CC BY-SA 2.0 Andrea Benjamin Manenti
In nome della sicurezza e in cambio di “promesse” di miglioramenti economici, in Italia e nel mondo, è in atto un processo di erosione delle libertà civili e politiche acquisite.
Nel nostro paese norme eccezionali, leggi e decreti prendono di mira sia alcune categorie vulnerabili a cui sono negati o limitati alcuni diritti individuali quali la libertà di espressione o manifestazione, ma anche l’intera società civile che subisce ostacoli all’organizzazione di manifestazioni.
Al tema della sicurezza è collegato quello dell’uso della forza da parte delle forze di polizia che possono talvolta dover usare poteri specifici come l’uso della forza e le armi da fuoco, l’arresto e la detenzione.
Quando lo fanno, gli agenti devono rispettare gli obblighi dello Stato nei confronti del diritto internazionale dei diritti umani, come il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona, il diritto alla libertà di riunione e alla libertà di espressione.
Laddove questo non avvenga e quando siano commesse violazioni dei diritti umani, attraverso l’abuso dei loro poteri, occorre accertare le violazioni e perseguire chi, tra i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio, abbia causato danno.
Ciò è possibile solo se viene garantita l’accountability (ovvero la responsabilità di rendere conto delle proprie azioni in modo trasparente) delle forze di polizia anche attraverso l’introduzione di strumenti di trasparenza, quali i codici identificativi per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico.
Dopo più di venti anni dopo il G8 di Genova del 2001, le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani commesse in quell’occasione sono state oggetto di sentenze in primo grado e in appello e sono state confermate sia dalla Corte di Cassazione sia dalla Corte europea dei diritti umani.
Molti fra gli appartenenti alle forze di polizia identificati come responsabili di quelle violazioni sono rimasti impuniti – principalmente per effetto della prescrizione.
In anni recenti, a chiamare in causa le responsabilità di appartenenti alle forze di polizia sono, inoltre, i casi di persone che hanno perso la vita mentre venivano arrestate o mentre si trovavano in custodia. Gli sforzi dei loro familiari di ottenere l’accertamento dei fatti e la punizione dei colpevoli hanno incontrato non poche difficoltà e ostacoli.
Per porre fine a queste violazioni e riaffermare il ruolo centrale delle forze dell’ordine nella protezione dei diritti umani, è essenziale che siano affrontati e risolti i problemi che sono all’origine delle difficoltà di accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali, nonché della punizione dei colpevoli, colmando le lacune normative eventualmente esistenti.
Chiediamo di introdurre nelle leggi del nostro Paese misure per l’identificazione degli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico, necessaria per accertare eventuali responsabilità individuali.
Sono diversi i disegni di legge presentati nelle passate legislature (ddl S.803 del 6 giugno 2013; ddl S.1307 del 13 febbraio 2014; ddl S.1337 del 26 febbraio 2014; ddl S.1412 del 25 marzo 2014) che perseguivano la finalità di dotare gli agenti di polizia di un codice identificativo per garantire riconoscibilità e identificazione.
L’introduzione del codice avrebbe un duplice effetto di trasparenza: nei confronti dei cittadini, che saprebbero chi hanno di fronte, e a garanzia di tutti gli agenti che svolgono correttamente il loro servizio.
Leggi le domande frequenti sui codici identificativi.
Le manifestazioni si verificano oggi più spontaneamente e in modo più reattivo, in risposta a eventi che suscitano sentimenti di preoccupazione o ingiustizia nell’opinione pubblica.
Nonostante siano organizzate con intenti pacifici, queste manifestazioni possono terminare con atti di violenza condotti dai manifestanti, da gruppi di persone esterne all’iniziativa o dalle stesse forze di polizia che dovrebbero garantire l’ordine pubblico.
La prerogativa del ricorso all’uso della forza da parte degli agenti di polizia è indispensabile perché possano svolgere il loro dovere, ma ciò non vuol dire che tale ricorso debba essere inevitabile.
Implicitamente, gli standard internazionali per la polizia dicono che la forza non deve essere usata se non quando realmente necessario.
Nell’ambito del più ampio programma “Spazi di libertà”, vogliamo contribuire a far sì che le libertà di espressione e manifestazione in Italia siano pienamente garantite, che le manifestazioni si svolgano senza rischio per l’incolumità delle persone e che siano garantite trasparenza e responsabilità sull’uso della forza in contesti di piazza.
In particolare, vogliamo presidiare e “osservare” lo spazio di libera e pacifica manifestazione pubblica, affinché sia assicurato il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali delle persone che vi partecipano.
Per questo, alla fine del 2017, abbiamo avviato il progetto “Task Force Osservatori” che impegna un gruppo di volontari nell’osservazione, monitoraggio e documentazione di alcune situazioni pubbliche a rischio di violazioni dei diritti umani in Italia.
Il compito degli osservatori, come previsto in simili progetti realizzati all’estero della nostra come di altre Organizzazioni, è quello di monitorare il comportamento delle forze di polizia schierate con funzioni di ordine pubblico e verificare se queste rispettino o meno gli standard internazionali sull’uso della forza e gli altri standard rilevanti in tali contesti.
È infine fondamentale che tutti gli appartenenti alle forze di polizia impegnati in operazioni di ordine pubblico o che devono procedere all’arresto di una persona siano adeguatamente preparati all’impiego di metodi non violenti e non letali e a ricorrere solo in caso di assoluta necessità a un uso legittimo e proporzionato della forza e delle armi, in linea con quanto stabilito dagli standard europei e internazionali in materia.
Una speciale attenzione va posta in occasione dell’eventuale uso di armi c.d. “non letali”, tra cui le pistole “taser”, il cui utilizzo ha causato un numero significativo di vittime in altri paesi.
Per leggere tutte le risposte alle domande più frequenti sul progetto “osservatori” clicca qui.
Con il termine “Taser” si fa riferimento a quelli che tecnicamente sono definiti ‘Conducted Energy Devices’ (CED), comunemente usati dagli agenti di polizia negli Stati Uniti.
I CED rilasciano una scarica elettrica a bassa intensità e ad alto voltaggio che agisce sul sistema nervoso centrale causando contrazioni muscolari e immobilizzando temporaneamente la persona colpita.
In passato, abbiamo espresso preoccupazione relativamente a queste armi e al loro utilizzo negli Stati Uniti e in Canada, dove sono molto più diffuse e hanno causato la morte di diverse persone.
Il 20 marzo 2018, è stata emanata una circolare dalla Direzione centrale Anticrimine della Polizia di Stato, che ha avviato la sperimentazione della pistola taser in sei questure italiane.
Chiediamo di condurre uno studio sui rischi per la salute connessi al suo impiego e di garantire una formazione specifica e approfondita per gli operatori che ne verranno dotati, in linea con gli standard internazionali e in particolare con i Principi guida delle Nazioni Unite sull’uso delle armi da fuoco da parte degli agenti di polizia.
Tuttavia anche qualora venissero soddisfatte queste due richieste, il rischio di violazioni dei diritti umani non verrebbe affatto azzerato.
LE TAPPE PRINCIPALI DELL’IMPEGNO DI AMNESTY INTERNATIONAL CONTRO LA TORTURA
1977: con la Conferenza di Stoccolma Amnesty International lancia la sua prima campagna mondiale contro la tortura.
Primi anni Ottanta: i rappresentanti di Amnesty International, guidati da Nigel Rodley (all’epoca legal advisor dell’associazione, in seguito Special Rapporteur delle Nazioni Unite contro la tortura e presidente del Comitato Onu dei diritti umani), danno un contributo importante all’elaborazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e i trattamenti e le punizioni crudeli inumani o degradanti, approvata dall’Assemblea generale nel 1984.
Primi anni Novanta: Amnesty International Italia scrive per la prima volta a tutti i parlamentari italiani chiedendo che venga introdotto un reato specifico di tortura nel Codice penale in vista della piena attuazione della Convenzione del 1984.
Dalla fine degli anni Novanta: Amnesty International Italia, insieme ad Antigone e ad altre organizzazioni della società civile, intensifica gli sforzi per ottenere l’introduzione del reato di tortura in Italia, attraverso lettere, incontri pubblici, audizioni, convegni, mobilitazioni e dichiarazioni.
2017: viene approvata in via definitiva da parte della Camera dei deputati la legge sul reato di tortura (Legge n. 110)
Ogni individuo ha il diritto di riunirsi ed esprimere pacificamente le proprie opinioni, così come afferma l’art. 20 della Dichiarazione universale dei diritti umani.
Manifestare, organizzare e partecipare a cortei di protesta pacifica significa esercitare fondamentali diritti costituzionali, oltre che realizzare i propri diritti umani. Manifestazioni possono essere organizzate per esprimere dissenso contro determinati aspetti della società o contro scelte degli organi politici o, ancora, una manifestazione può avere l’obiettivo di esprimere solidarietà a qualcuno oppure quello di sostenere una determinata iniziativa.
Da Piazza Tienanmen, nel 1989, alla Primavera araba nel 2010-13 e nel corso della storia, la protesta è stata sempre un catalizzatore per il cambiamento e un potente veicolo per raccontare al mondo la verità̀.
Negli ultimi anni, sempre più̀ persone scendono in piazza (reale o virtuale che sia) a reclamare i diritti e sempre più̀ governi percepiscono ciò̀ come una minaccia al loro controllo. Attiviste e attivisti ovunque stanno sperimentando in prima persona le tattiche dei governi e delle forze di sicurezza per limitare, controllare e mettere fuori legge le proteste. In molte parti del mondo, coloro che esercitano il diritto di protesta in modo pacifico vengono molestati, picchiati, imprigionati e uccisi. Il diritto di protesta non è mai stato così minacciato come oggi.
Partecipa alla campagna Proteggo la protesta.
Dalla fine del 2016, l’Italia, insieme ad altri paesi dell’Unione Europea e con il sostegno delle istituzioni dell’UE, ha creato un ambiente ostile per i difensori dei diritti umani e le organizzazioni della società civile che svolgono missioni di soccorso in mare e forniscono sostegno alle persone migranti, in particolare in ingresso e transito.
Attraverso l’uso di un linguaggio stigmatizzante, rappresentanti istituzionali, politici e commentatori hanno creato una narrazione pubblica intrisa di dubbio e sospetto circa il ruolo e le motivazioni alla base delle azioni delle organizzazioni e delle persone che prestano assistenza a rifugiati e migranti.
Il discredito costruito intorno alle azioni di solidarietà si è strutturato come una vera campagna diffamatoria che è stata spesso seguita dall’avvio di indagini incentrate sui metodi operativi delle Ong, sulle loro fonti finanziarie, e sulle motivazioni alla base delle azioni dei difensori dei diritti.
Tra inchieste giudiziarie e fermi amministrativi delle navi, dal 2017 sono state aperte in Italia almeno 21 indagini contro Ong, quasi tutte chiuse con archiviazioni o proscioglimenti. L’unico procedimento ancora aperto è quello contro la nave Iuventa della Ong Jugend Rettet: Amnesty International partecipa alle udienze preliminari in corso in qualità di osservatore internazionale, ed è al fianco dei quattro imputati che rischiano fino a venti anni di carcere con l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione irregolare” per aver tratto in salvo più di 14.000 persone intercettate e soccorse nel Mar Mediterraneo.
La tendenza alla criminalizzazione della solidarietà e dei difensori dei diritti umani si manifesta trasversalmente in tutta l’Unione Europea – qui l’approfondimento di Amnesty International Europe: Punishing compassion: Solidarity on trial in Fortress Europe – e si inserisce in una politica che, mentre mira a dissuadere dal prestare assistenza umanitaria a rifugiati e migranti, punta a ridurre il numero di persone che giungono in Europa, in sinergia con accordi di esternalizzazione e cooperazione con Paesi che violano i diritti umani, in particolare la Libia.
Amnesty International è impegnata contro la criminalizzazione della solidarietà nelle sue varie forme: disposizioni legislative trasversali, azioni penali contro gli attivisti e la potenziale stigmatizzazione e intimidazione che portano alla criminalizzazione. Siamo dalla parte degli attivisti sotto attacco, per difendere i diritti dei migranti e dei rifugiati. Monitoriamo i casi e i processi emblematici, sviluppiamo azioni di solidarietà e analizziamo la legislazione nei paesi interessati dal fenomeno dimostrando le violazioni del diritto internazionale. Sollecitiamo gli stati ad assicurare un ambiente sicuro e abilitante in cui i difensori dei diritti umani possano operare senza timore di rappresaglie, in conformità a quanto dichiarato dall’Onu.