In nome della sicurezza e in cambio di “promesse” di miglioramenti economici, in Italia e nel mondo, è in atto un processo di erosione delle libertà civili e politiche acquisite.
Nel nostro paese norme eccezionali, leggi e decreti prendono di mira sia alcune categorie vulnerabili a cui sono negati o limitati alcuni diritti individuali quali la libertà di espressione o manifestazione, ma anche l’intera società civile che subisce ostacoli all’organizzazione di manifestazioni.
Al tema della sicurezza è collegato quello dell’uso della forza da parte delle forze di polizia che possono talvolta dover usare poteri specifici come l’uso della forza e le armi da fuoco, l’arresto e la detenzione.
Quando lo fanno, gli agenti devono rispettare gli obblighi dello Stato nei confronti del diritto internazionale dei diritti umani, come il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona, il diritto alla libertà di riunione e alla libertà di espressione.
Laddove questo non avvenga e quando siano commesse violazioni dei diritti umani, attraverso l’abuso dei loro poteri, occorre accertare le violazioni e perseguire chi, tra i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio, abbia causato danno.
Ciò è possibile solo se viene garantita l’accountability (ovvero la responsabilità di rendere conto delle proprie azioni in modo trasparente) delle forze di polizia anche attraverso l’introduzione di strumenti di trasparenza, quali i codici identificativi per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico.
Photo Credit: CC BY-SA 2.0 Andrea Benjamin Manenti
Diciassette anni dopo il G8 di Genova del 2001, le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani commesse in quell’occasione sono state oggetto di sentenze in primo grado e in appello e sono state confermate sia dalla Corte di Cassazione sia dalla Corte europea dei diritti umani.
Molti fra gli appartenenti alle forze di polizia identificati come responsabili di quelle violazioni sono rimasti impuniti – principalmente per effetto della prescrizione.
In anni recenti, a chiamare in causa le responsabilità di appartenenti alle forze di polizia sono, inoltre, i casi di persone che hanno perso la vita mentre venivano arrestate o mentre si trovavano in custodia. Gli sforzi dei loro familiari di ottenere l’accertamento dei fatti e la punizione dei colpevoli hanno incontrato non poche difficoltà e ostacoli.
Per porre fine a queste violazioni e riaffermare il ruolo centrale delle forze dell’ordine nella protezione dei diritti umani, è essenziale che siano affrontati e risolti i problemi che sono all’origine delle difficoltà di accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali, nonché della punizione dei colpevoli, colmando le lacune normative eventualmente esistenti.
Chiediamo di introdurre nelle leggi del nostro Paese misure per l’identificazione degli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico, necessaria per accertare eventuali responsabilità individuali.
Sono diversi i disegni di legge presentati nelle passate legislature (ddl S.803 del 6 giugno 2013; ddl S.1307 del 13 febbraio 2014; ddl S.1337 del 26 febbraio 2014; ddl S.1412 del 25 marzo 2014) che perseguivano la finalità di dotare gli agenti di polizia di un codice identificativo per garantire riconoscibilità e identificazione.
L’introduzione del codice avrebbe un duplice effetto di trasparenza: nei confronti dei cittadini, che saprebbero chi hanno di fronte, e a garanzia di tutti gli agenti che svolgono correttamente il loro servizio.
Le manifestazioni si verificano oggi più spontaneamente e in modo più reattivo, in risposta a eventi che suscitano sentimenti di preoccupazione o ingiustizia nell’opinione pubblica.
Nonostante siano organizzate con intenti pacifici, queste manifestazioni possono terminare con atti di violenza condotti dai manifestanti, da gruppi di persone esterne all’iniziativa o dalle stesse forze di polizia che dovrebbero garantire l’ordine pubblico.
La prerogativa del ricorso all’uso della forza da parte degli agenti di polizia è indispensabile perché possano svolgere il loro dovere, ma ciò non vuol dire che tale ricorso debba essere inevitabile.
Implicitamente, gli standard internazionali per la polizia dicono che la forza non deve essere usata se non quando realmente necessario.
Nell’ambito del più ampio programma “Spazi di libertà”, vogliamo contribuire a far sì che le libertà di espressione e manifestazione in Italia siano pienamente garantite, che le manifestazioni si svolgano senza rischio per l’incolumità delle persone e che siano garantite trasparenza e responsabilità sull’uso della forza in contesti di piazza.
In particolare, vogliamo presidiare e “osservare” lo spazio di libera e pacifica manifestazione pubblica, affinché sia assicurato il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali delle persone che vi partecipano.
Per questo, alla fine del 2017, abbiamo avviato il progetto “Task Force Osservatori” che impegna un gruppo di volontari nell’osservazione, monitoraggio e documentazione di alcune situazioni pubbliche a rischio di violazioni dei diritti umani in Italia.
Il compito degli osservatori, come previsto in simili progetti realizzati all’estero della nostra come di altre Organizzazioni, è quello di monitorare il comportamento delle forze di polizia schierate con funzioni di ordine pubblico e verificare se queste rispettino o meno gli standard internazionali sull’uso della forza e gli altri standard rilevanti in tali contesti.
È infine fondamentale che tutti gli appartenenti alle forze di polizia impegnati in operazioni di ordine pubblico o che devono procedere all’arresto di una persona siano adeguatamente preparati all’impiego di metodi non violenti e non letali e a ricorrere solo in caso di assoluta necessità a un uso legittimo e proporzionato della forza e delle armi, in linea con quanto stabilito dagli standard europei e internazionali in materia.
Una speciale attenzione va posta in occasione dell’eventuale uso di armi c.d. “non letali”, tra cui le pistole “taser”, il cui utilizzo ha causato un numero significativo di vittime in altri paesi.
Per leggere tutte le risposte alle domande più frequenti sul progetto “osservatori” clicca qui.
Con il termine “Taser” si fa riferimento a quelli che tecnicamente sono definiti ‘Conducted Energy Devices’ (CED), comunemente usati dagli agenti di polizia negli Stati Uniti.
I CED rilasciano una scarica elettrica a bassa intensità e ad alto voltaggio che agisce sul sistema nervoso centrale causando contrazioni muscolari e immobilizzando temporaneamente la persona colpita.
In passato, abbiamo espresso preoccupazione relativamente a queste armi e al loro utilizzo negli Stati Uniti e in Canada, dove sono molto più diffuse e hanno causato la morte di diverse persone.
Il 20 marzo 2018, è stata emanata una circolare dalla Direzione centrale Anticrimine della Polizia di Stato, che ha avviato la sperimentazione della pistola taser in sei questure italiane.
Chiediamo di condurre uno studio sui rischi per la salute connessi al suo impiego e di garantire una formazione specifica e approfondita per gli operatori che ne verranno dotati, in linea con gli standard internazionali e in particolare con i Principi guida delle Nazioni Unite sull’uso delle armi da fuoco da parte degli agenti di polizia.
Tuttavia anche qualora venissero soddisfatte queste due richieste, il rischio di violazioni dei diritti umani non verrebbe affatto azzerato.
L’articolo 17 della Costituzione recita “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”.
Manifestare, organizzare e partecipare a cortei di protesta pacifica significa esercitare fondamentali diritti costituzionali, oltre che realizzare i propri diritti umani. Manifestazioni possono essere organizzate per esprimere dissenso contro determinati aspetti della società o contro scelte degli organi politici o, ancora, una manifestazione può avere l’obiettivo di esprimere solidarietà a qualcuno oppure quello di sostenere una determinata iniziativa.
A giugno 2017, dopo l’incidente a Piazza San Carlo a Torino, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno ha emanato una Circolare contenente nuove misure di sicurezza per concerti ed eventi in piazza che individua nuove e rigorose disposizioni per il governo e la gestione delle pubbliche manifestazioni, indicando agli organizzatori le condizioni di Safety (dispositivi e misure strutturali a salvaguardia dell’incolumità delle persone) da accertare nell’organizzazione di un evento e di Security (servizi di ordine e sicurezza pubblica) per lo svolgimento in sicurezza di tali eventi.
Queste nuove misure di sicurezza comportano un ostacolo aggiuntivo e sproporzionato per gli organizzatori, alle prese con costi maggiorati e nuove problematiche da dover affrontare.
Chiediamo che sia riconosciuta la responsabilità principale delle autorità locali nella sicurezza ovvero nel permettere l’esercizio della libertà di manifestazione attraverso l’organizzazione di eventi pubblici.
In diversi Paesi europei abbiamo assistito a una crescente criminalizzazione delle Organizzazioni non governative e di singoli cittadini e volontari che prestano assistenza ai migranti, in particolare ai profughi in transito, che in alcuni casi sfocerebbe nei cosiddetti “reati di solidarietà”.
Si parla di criminalizzazione della solidarietà, quindi, non solo quando le associazioni e i volontari vengono stigmatizzati in senso negativo nel dibattito pubblico, ma quando viene punito, sul piano penale o amministrativo, un qualsiasi comportamento finalizzato al fornire aiuto, indicazioni o qualsiasi tipo di assistenza a chi fugge da guerre e persecuzioni.
Il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui difensori dei Diritti Umani, Michel Forst, in visita in Italia a maggio 2017, ha dichiarato: “In Italia si assiste ad attacchi mirati e deliberati contro le organizzazioni della società civile, soprattutto quelle organizzazioni che si occupano di difesa dei diritti dei migranti, coloro che operano per salvare i migranti in mare e coloro che cercano di aiutare i migranti a stabilirsi in questo paese o che cercano di aiutarli a lasciare il paese per recarsi altrove… Una situazione, quella italiana, che in Europa ha similitudini solo in Francia e Ungheria. Quello cui si assiste in questi tre paesi sono denunce diffamatorie e attacchi che hanno l’obiettivo di cercare di sminuire o vanificare il lavoro dei difensori diritti umani. Attacchi che portano addirittura a criminalizzare questi difensori. Chi difende i diritti umani nell’ambito della ricerca e soccorso in mare, accoglienza di migranti e rifugiati incorre sempre di più in limitazioni al proprio lavoro e si confronta con una criminalizzazione che sfocia nel reato di solidarietà”.
Ad esempio, nel 2017, le Ong impegnate nelle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) nel Mediterraneo sono state il bersaglio di campagne denigratorie solo per avere assolto all’obbligo morale e legale di salvare vite in mare. Questi attacchi hanno finito per ostacolare il loro lavoro umanitario e ridurre la loro presenza in mare.
Allo stesso modo, nel 2017, diversi attivisti sono stati accusati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare a causa delle chiamate fatte alla Guardia Costiera per informare di avvistamenti di migranti alla deriva in mare. Alle frontiere terrestri europee, attivisti e difensori dei diritti umani sono stati perseguiti e accusati di contrabbando, multati e persino incarcerati, solo per avere aiutato i migranti che volevano attraversare i confini in modo irregolare. In alcuni casi le autorità statali stanno abusando di disposizioni anti-contrabbando, interpretandole in maniera errata e allargata per criminalizzare i difensori dei diritti umani.
Anche nel 2018 la situazione non sembra migliorare. Decisioni simili prese in paesi diversi stanno creando precedenti per standard che danneggiano il lavoro dei singoli e dei gruppi in difesa di rifugiati e migranti.
In Europa, la criminalizzazione della solidarietà ha conseguenze più profonde: implica la criminalizzazione di uno dei valori fondamentali che dovrebbero definire le nostre società e prepara il terreno per paura e divisioni, impedendo alla società civile di connettersi e impegnarsi per la ricerca di dignità e protezione per rifugiati e migranti.
Amnesty International è impegnata contro la criminalizzazione della solidarietà nelle sue varie forme: disposizioni legislative trasversali, azioni penali contro gli attivisti e la potenziale stigmatizzazione e intimidazione che portano alla criminalizzazione. Siamo dalla parte degli attivisti sotto attacco, per difendere i diritti dei migranti e dei rifugiati. Monitoriamo i casi e i processi emblematici, sviluppiamo azioni di solidarietà e analizziamo la legislazione nei paesi interessati dal fenomeno dimostrando le violazioni del diritto internazionale.
Il lavoro umanitario e dei diritti umani non dovrebbe mai essere criminalizzato perché aiutare le persone ad attraversare i confini in modo irregolare senza alcun vantaggio personale non è contrabbando e non dovrebbe essere considerato un reato. La solidarietà non è reato.