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di Elisa De Pieri e Matteo De Bellis ricercatori dell’Ufficio regionale per l’Europa di Amnesty International
Per chi da anni osserva la situazione nel Mediterraneo centrale, rotta che decine di migliaia di donne, uomini e bambini hanno percorso a bordo di barche fatiscenti, in particolare dal 2013 al 2017, per sfuggire a guerre e persecuzioni o alla ricerca di un futuro più dignitoso, il 2018 si è contraddistinto come “l’anno della Diciotti”.
Oltre ai drammatici incidenti in mare, purtroppo già accaduti in passato, nel 2018 il nuovo governo italiano insediatosi a giugno ha infatti deciso di assicurare e spettacolarizzare il blocco di nuovi arrivi di persone straniere via mare, fino a impedire a una nave della guardia costiera italiana, la Diciotti, di sbarcare in Italia persone soccorse in mare, trattenendole per giorni senza una base legale o un ordine della magistratura.
Oltre a violare la proibizione di detenzione arbitraria ai danni di 177 persone, l’incidente della Diciotti ad agosto ha rappresentato il culmine della politica dei “porti chiusi”, che il governo ha attuato senza averla deliberata né formalmente comunicata alle autorità competenti e senza riguardo né per la salute e la sicurezza delle persone coinvolte, né per i propri obblighi internazionali. Dopo il rifiuto di sbarcare imposto alle navi di diverse Ong e a navi commerciali e militari straniere, col caso Diciotti si è arrivati al paradosso del rifiuto allo sbarco nei confronti di una nave militare italiana, il cui personale aveva adempiuto ai propri obblighi di soccorso dettati da leggi nazionali e internazionali. Ma c’è di più.
Col caso Diciotti si è chiuso il cerchio di una strategia, efficacemente riattivata dal governo precedente ma originariamente intrapresa (benché con mezzi parzialmente diversi) già dal governo Berlusconi, che si poneva il medesimo obiettivo finale: la riduzione degli approdi di rifugiati e migranti in Italia mediante la delega del controllo delle frontiere marittime italiane ed europee alle autorità libiche. Ed è forse ironico che proprio la nave intitolata al maggior generale Ubaldo Diciotti, comandante del porto di Tripoli durante il fascismo, dopo aver contribuito a salvare la vita di migliaia di naufraghi in questi anni, sia divenuta protagonista dell’ultimo atto di questa strategia dalle tragiche conseguenze.
Dieci anni fa, con la firma di un Trattato di amicizia tra Italia e Libia, il governo Berlusconi diede inizio a una politica di cooperazione per il controllo delle frontiere che, sorretta da argomenti politici molto simili agli attuali, prevedeva la cessione di imbarcazioni dall’Italia alla Libia e culminò con lo scempio dei respingimenti verso la Libia, ossia lo sbarco in un luogo pericoloso di persone intercettate in mare.
Tale politica, che violava palesemente il diritto internazionale, fu interrotta a seguito del conflitto in Libia ma questo non esonerò l’Italia nel 2012 da una pesantissima condanna da parte della Corte europea dei diritti umani, proprio per quei respingimenti le cui vittime erano state riconsegnate alla Libia e dunque esposte al rischio di subire nuove violenze e abusi. Cinque anni fa, in reazione all’orrore per le 368 vittime del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e soltanto otto giorni dopo per le oltre 200 vittime del così detto “naufragio dei bambini”, che mostrò come i rimpalli di competenze con Malta potevano costare la vita a centinaia di persone, il governo Letta scelse di lanciare una grande operazione umanitaria, Mare Nostrum, per soccorrere in mare quante più persone possibile. Mare Nostrum, andando a rafforzare il costante impegno della guardia costiera italiana, garantì il salvataggio di decine di migliaia di vite, abbassando notevolmente il tasso di mortalità in mare e ridando onore a corpi dello stato ancora feriti dall’onta dei respingimenti e della relativa condanna.
Per fare fronte all’aggravarsi della crisi dei rifugiati siriani e al collasso dello stato libico, l’Italia e l’Unione europea avrebbero dovuto accompagnare questo primo passo, di tipo umanitario, con riforme strutturali delle loro politiche migratorie, che comprendessero l’apertura di canali sicuri e regolari per rifugiati e migranti, in misura adeguata alla gravità della situazione. Ciò avrebbe potuto limitare il numero di persone che, nella pressoché totale assenza di opportunità di ottenere un visto per entrare in Europa regolarmente, rischiavano la vita nella pericolosissima traversata del Mediterraneo centrale.
Purtroppo, le continue richieste in questo senso da parte del mondo non-governativo e dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, rimasero inascoltate. L’Italia, spalleggiata dagli altri governi europei, preferì investire su politiche di chiusura. Alla fine del 2014, Mare Nostrum fu sostituita con operazioni europee di carattere securitario e militare (Triton e, dall’estate 2015, EunavForMed Sophia), per le quali il salvataggio in mare, pur rimanendo tra i compiti necessari perché imposti dal diritto internazionale, non costituiva più la finalità principale della missione.
Dal 2016, Italia ed Europa iniziarono a investire nel rafforzamento della capacità delle autorità marittime libiche di pattugliare le loro coste, intercettare in mare rifugiati e migranti diretti verso l’Europa e riportarli in Libia, oltre che a stringere accordi informali con milizie coinvolte nel traffico dei rifugiati e migranti. Questa strategia ha prodotto i risultati che si prefiggeva, riducendo partenze e arrivi: da luglio 2017, il numero di rifugiati e migranti approdati in Italia è diminuito drasticamente, passando dai 182.877 registrati nei 12 mesi precedenti (agosto 2016 – luglio 2017), ai 42.700 dei 12 mesi successivi (agosto 2017 – luglio 2018). Al minor numero di partenze è corrisposto anche, logicamente, un numero minore di vittime in mare.
Gli effetti di questa politica sono però stati drammatici per le persone riportate in Libia, non solo perché le autorità libiche non sono ancora in grado di tutelare le persone che intercettano in mare e spesso le maltrattano (come nel caso di Josefa, la donna ritrovata in mare dalla Ong Proactiva Open Arms lo scorso luglio) ma soprattutto perché quelle persone vengono sbarcate in Libia e immediatamente trasferite in centri di detenzione, dove vengono trattenute arbitrariamente e a tempo indefinito, in assenza di un ordine e di qualunque controllo giurisdizionale, e dove sono sistematicamente esposte a condizioni agghiaccianti oltre che a torture, stupri, maltrattamenti e sfruttamenti di ogni tipo.
Violazioni dei diritti umani, queste, di cui l’Italia si è resa complice perché, pur conoscendo la situazione, ha continuato a offrire aiuto materiale a chi le perpetra e non ha richiesto alle autorità libiche di porre fine agli abusi, come condizione previa per la fornitura di tale assistenza. A partire dal 2017, la guardia costiera libica, forte del decisivo supporto italiano e dell’Unione europea, è stata in grado di intercettare in mare una fetta crescente di coloro che partivano. Migliaia di donne, uomini e bambini sono stati poi riportati nei centri di detenzione in Libia e sottoposti a maltrattamenti spietati.
Di fronte a questa situazione, nel 2018, il governo Conte avrebbe potuto fare la cosa giusta, usando l’influenza italiana in Libia per promuovere un’agenda di riforme focalizzata sulla protezione dei diritti umani nel paese, a partire dalla chiusura dei centri di detenzione per rifugiati e migranti, e investendo nella riforma delle politiche migratorie italiane ed europee e nell’apertura di canali sicuri e regolari per rifugiati e migranti, compresi quelli imprigionati in Libia.
Purtroppo, la decisione è stata invece quella di continuare a ergere muri per fermare una “crisi migratoria” che, visto il netto calo degli approdi in Italia già dal 2017, ormai esiste solo nelle dichiarazioni di politici disonesti e sulle colonne di giornali di propaganda.
In totale continuità con la strategia di esternalizzazione definita durante la precedente legislatura, il nuovo governo italiano ha consegnato nuove imbarcazioni alla guardia costiera libica, ha proseguito il progetto di costituzione di un centro di coordinamento marittimo a Tripoli e ha continuato le varie attività addestrative e di assistenza alle autorità marittime libiche. In parallelo, il governo ha riaperto il conflitto con le Ong impegnate nei soccorsi in mare, ostinatamente colpevoli di salvare vite e di voler rispettare le norme internazionali che vietano di sbarcare persone soccorse in mare in luoghi non sicuri, come la Libia.
Sebbene non sia emersa alcuna prova di comportamenti criminali da parte delle Ong, nonostante le approfondite indagini condotte da diverse procure, il governo ne ha continuato a ostacolare le attività: non solo svilendone e infangandone l’operato attraverso la stampa e i social network, spesso travisando i fatti per mera convenienza politica, ma anche proibendo alle loro navi di sbarcare in Italia le persone soccorse in mare e molto probabilmente spingendo le autorità di Panama a revocare la bandiera alla nave Aquarius.
Di fronte a una politica migratoria tanto ostile al rispetto dei diritti umani di rifugiati e migranti non pare un caso che, per la prima volta in diversi anni, una nave mercantile italiana, la Asso Ventotto, a luglio si sia sentita autorizzata a sfidare il divieto di respingimento e abbia sbarcato a Tripoli un gruppo di persone soccorse in mare.
Le conseguenze della politica dei “porti chiusi” e della complementare strategia di criminalizzazione e denigrazione delle Ong, sono ormai evidenti: con l’annichilimento delle flotte non governative votate al soccorso in mare, nei mesi estivi si è registrato uno spaventoso aumento del tasso di mortalità in mare, che ha addirittura superato il 20 per cento a settembre, oltre che delle persone trattenute arbitrariamente nei centri di detenzione in Libia, passate dalle 4.400 di marzo alle 10.000 di agosto. Molte di queste a fine agosto sono rimaste imprigionate nel tiro incrociato delle milizie, quando il risorgere di scontri armati a Tripoli ha causato nuove vittime per le strade, anche tra i civili, inducendo tra l’altro il governo italiano a fare rientrare a Roma l’ambasciatore italiano.
Nel frattempo, il governo Conte si è ben guardato dal portare avanti anche quelle minime misure positive per alleviare le sofferenze dei rifugiati intrappolati in Libia, che il governo precedente aveva tentato, in particolare con l’evacuazione di 312 rifugiati dalla Libia in Italia tra dicembre 2017 e febbraio 2018. Negli otto mesi successivi alle elezioni di marzo, il governo italiano non ha realizzato alcuna evacuazione, fino a quella di 44 rifugiati, avvenuta il 7 novembre. Nello stesso periodo, il governo non è neppure riuscito a ottenere che il governo libico mantenesse fede all’impegno, strappato dal precedente esecutivo italiano già nel 2017, di garantire l’apertura da parte dell’Unhcr di un centro di assistenza per rifugiati a Tripoli. Il centro, completato prima dell’estate e visitato a giugno dal ministro dell’Interno italiano, secondo il quale la sua apertura prevista il mese successivo avrebbe smontato “le menzogne e tutta la retorica in base alle quali in Libia si tortura e si ledono i diritti civili”, all’inizio di novembre non era ancora entrato in funzione.
L’ostilità del governo verso i diritti delle persone straniere si è manifestata anche con l’adozione del così detto Decreto sicurezza a settembre e degli emendamenti allo stesso presentati dal governo durante la sua successiva conversione in legge. La drastica riduzione della possibilità di offrire uno status regolare temporaneo a persone che non possono essere rimpatriate, pur non essendo giuridicamente qualificabili come rifugiate, significa che queste si trovano ad affrontare lunghi periodi di irregolarità e inevitabilmente di deprivazione materiale ed esclusione sociale. La riduzione dell’accoglienza dignitosa dei richiedenti asilo nei centri Sprar si tradurrà probabilmente in maggiori ostacoli all’inclusione di queste persone e in un rafforzamento dell’immagine di rifugiati e richiedenti asilo come problema da contenere in centri separati dalla comunità ospitante. Inoltre, l’introduzione di una lista di “paesi sicuri” rischia di escludere persone che avrebbero diritto all’asilo da qualunque forma di protezione, discriminandole sulla base della nazionalità. Queste e altre misure di erosione di diritti e tutele, complessivamente, renderanno l’Italia sempre meno accogliente e potenzialmente più pericolosa per chi arriva in cerca di rifugio e di una vita migliore.
Ne è già sintomo il linguaggio istituzionale, che nel 2018 si è incattivito, in particolare attraverso la vera e propria crociata fatta sui social network del ministro dell’Interno nei confronti di rifugiati e migranti, delle associazioni che li assistono e financo di rappresentanti istituzionali che hanno cercato di suggerire forme per la loro migliore integrazione, come il sindaco di Riace, o di tutelarne i diritti contro gli abusi dello stato, come il procuratore di Agrigento. Questa continua diffusione d’odio ha contribuito a creare condizioni propizie per la preoccupante serie di crimini d’odio contro persone di colore, quali la tentata strage di Macerata a febbraio e altri crimini violenti riportati dalla stampa durante l’anno, da Sassari a Brindisi, da Aprilia a Morbegno, da Castel Volturno a Moncalieri.
Se la strategia del governo in Libia e in Italia sembra chiara, per quanto estremamente dannosa, incomprensibile è apparso invece l’approccio adottato dal nuovo governo a Bruxelles. Dopo anni di battaglie per ottenere una riforma del sistema di Dublino, volta a garantire l’equa redistribuzione nei diversi paesi europei dei richiedenti asilo entrati in Europa (riforma che Amnesty International invoca da anni e che allevierebbe le responsabilità dell’Italia), nel 2018 il governo Conte ha deciso di allinearsi con l’Ungheria di Orbán e col blocco di Visegrad, contribuendo all’affossamento della riforma del sistema di Dublino e di qualunque forma strutturale di condivisione di responsabilità.
Quest’unione di nazionalismi, dai marcati connotati xenofobi e votati alla distruzione delle garanzie del diritto formulate dall’Unione europea nei decenni, rappresenta uno degli aspetti più preoccupanti per il 2019. L’Unione europea potrebbe ritrovarsi paralizzata da stati membri retti da governi la cui sopravvivenza politica è condizionata dal mantenimento di uno stato permanente di percepita insicurezza, che si presuppone dovuta a una “crisi migratoria” a tempo indeterminato.
Se non dovesse emergere un consenso politico su basi diverse nell’Unione, saranno i più vulnerabili a pagarne il prezzo: donne sudanesi, bambini iracheni, uomini eritrei, giovani alla ricerca di un impiego e anziani in fuga dalla guerra, persone sole in viaggio per riunirsi a un familiare e famiglie intere alla ricerca di un posto che meriti di essere chiamato casa. Sono queste le persone sulle quali rischia di convergere in maniera sempre più violenta l’odio generato da politiche irrispettose dello stato di diritto e conniventi con un pensiero nativista e xenofobo.
Il 2018 ha però offerto anche una speranza di cambiamento, incarnata nei cittadini e nelle associazioni che si sono organizzati per opporsi alla crescente violenza xenofoba e per offrire assistenza a rifugiati e migranti, anche sfidando leggi e politiche ingiuste o malamente applicate, in difesa dei diritti umani e dei valori costituzionali.
Nel 2019 avremo ancora bisogno del loro coraggio e della loro energia, e di quella di sindaci, funzionari ministeriali, magistrati e altri rappresentanti delle istituzioni votati alla difesa dello stato di diritto e dei diritti di tutti, anche a costo di nuotare controcorrente. Amnesty International continuerà a essere al loro fianco, per mantenere viva la speranza che il ’19 possa essere l’anno, tanto atteso e necessario, di politiche nuove.
Aggiornamento del 11/12/2018 – Dopo che il presente testo era andato in stampa, c’è stato un nuovo resettlement verso l’Italia ed è stato aperto il Centro dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati a Tripoli. Quest’apertura è un piccolo passo positivo ma non rappresenta una soluzione definitiva: potrà ospitare unicamente rifugiati e solo per un massimo 1000 persone, una frazione delle migliaia attualmente nei centri di detenzione in Libia, di cui non si prevede la chiusura.